di Marcello Caruso Spinelli

«Operare è bene, pregare è meglio,ma la miglior cosa è soffrire»

Don Edoardo Poppe nasce a Temsche, nelle Fiandre, il 18 dicembre 1890, terzo di undici figli. La famiglia è profondamente cristiana. Il padre, panettiere, lavora dal mattino fino a tarda notte per mantenere la numerosa famiglia. Gran lavoratore e dolce di carattere, accetta senza lamentarsi la pesante fatica perché «è necessario rassegnarsi sempre alla volontà di Dio». La madre, dal carattere energico, guida ed educa i figli, rendendoli docili «anche se avessero avuto la testa fatta di pietra dura».

A quindici anni Edoardo manifesta il desiderio di diventare sacerdote. Il padre lo abbraccia e gli dice: «Edoardo, ascoltami. Se al Signore piace chiamarti al sacerdozio, io ne sarò felice. Non preoccuparti, figlio mio, per permetterti di seguire la tua vocazione, se sarà necessario, io mi ammazzerò di lavoro. Ma tieni bene in mente questo, Edoardo: tuo padre non vuole che, più tardi, nel sacerdozio tu abbia una vita più facile di quella che avresti avuta qui nel negozio. Tuo padre non vuole che, più avanti, tu divenga un adulatore dei ricchi. Egli vuole, invece, che tu sia un difensore e un amico dei poveri e dei disgraziati». Edoardo non dimenticherà mai le parole del padre. Dopo aver compiuto gli studi classici presso i “Fratelli della Carità” e terminato il servizio militare, si laurea in filosofia e, nel 1913, entra in Seminario. Per circa due anni segue gli studi di teologia che deve, però, interrompere per lo scoppio della prima Guerra mondiale. Richiamato alle armi viene arruolato come infermiere.

 

I primi passi nel sacerdozio

Dopo l’occupazione del Belgio da parte dell’esercito tedesco ritorna in Seminario e il 1° Maggio 1916, viene ordinato sacerdote. Si dona, con generosa volontà, tutto a Dio come apostolo e vittima. Il sacrificio sarà il principio fondamentale del suo sacerdozio: «Colui che si presenta all’ordinazione è un martire». Un mese dopo la sua ordinazione, viene nominato vicario in una parrocchia di un quartiere povero di Gand, dove diventa il difensore e l’amico dei poveri. Si spoglia di tutto. Rinuncia a tutto: al denaro, all’orologio, al violino, alla pipa e al tabacco, ai vestiti e alla biancheria e perfino al suo letto, per alleviare la terribile miseria causata dalla guerra. Come vicario organizza associazioni eucaristiche e un’opera di catechiste che si diffonde anche in altre parrocchie. Vi applica un metodo completo di educazione eucaristica e mariana: santificare la vita dei fanciulli attraverso l’Eucaristia con l’aiuto di Maria, Mediatrice di tutte le grazie. L’opera dei catechisti si occupa dei piccoli, figli di genitori indifferenti e li prepara alla prima comunione.

Apostolo nella sofferenza

Tuttavia, a causa delle sue precarie condizioni di salute (da tempo soffre di cuore), le associazioni eucaristiche, dalle promesse così magnifiche, gli sfuggono di mano, mentre l’opera delle catechiste gli viene tolta in seguito a meschine interpretazioni ed opposizioni. In questi dolorosi momenti don Edoardo dà l’esempio di una fede e di una sottomissione filiale. Si getta ai piedi del suo vescovo e lo ringrazia di avergli tolto la sua opera. È persuaso di questa verità: «Quando tutto diventa sofferenza, quando ogni nostra opera rovina, allora diventa opera di Gesù».

La malattia fa il resto. Don Edoardo viene trasferito, per riposare, come rettore nel convento delle Suore di San Vincenzo de’ Paoli di Moerzeke. Le sue condizioni di salute, però, peggiorano e nel maggio 1915, una crisi cardiaca lo riduce in fin di vita. Ad ogni ricaduta prega così: «Vi adoro profondamente, Santa Volontà di Gesù, nascosta sotto le apparenze di questa malattia». Dalla sofferenza, don Edoardo esce purificato, ardente e meravigliosamente preparato per un nuovo apostolato. Il suo letto di malattia diventa la sua cattedra: «Una piccola croce, sopportata con dolorosa pazienza per cinque minuti, fa maggior bene che non tre grossi volumi o innumerevoli scritti. Operare è bene, pregare è meglio, ma la miglior cosa è soffrire», scriveva.

La Crociata Eucaristica

Nel 1920 da più parti gli viene chiesto di lanciare la Crociata Eucaristica. Egli ne diventa l’anima e il pioniere. Per lui la Crociata deve essere un metodo di formazione soprannaturale, di educazione per l’Eucaristia e i Sacramenti e deve, dai fanciulli, irradiare gli adulti di ogni classe sociale. Mediante i suoi articoli e i suoi scritti si manifesta il suo spirito e il suo fervore. Per i fanciulli pubblica il settimanale “Il paese del sole”, attraverso cui i piccoli lettori ricevono il suo messaggio scritto con vivacità e semplicità di linguaggio, ricco, però, di passione eucaristica e mariana. È un trionfo. Nel 1922 la Crociata eucaristica conta centomila aderenti. Don Edoardo espone il suo magistrale pensiero pedagogico nella sua opera “Il metodo educativo eucaristico” che il Card. Mercier chiama «un piccolo capolavoro». Compone ancora, dimostrando di avere una profonda conoscenza dell’anima dei piccoli, l’ammirabile libro di pietà per i fanciulli “L’amico dei fanciulli” e, per gli educatori “Il manuale della catechista” e “La direzione spirituale dei fanciulli”.

Apostolo dei sacerdoti

A Moerzeke incominciano ad accorrere coloro che avevano bisogno di consigli per la loro vita interiore. Il santo sacerdote, nonostante il suo stato di salute, riceve tutti senza sosta, nella sua umilissima e poverissima camera, interrompendo qualsiasi attività. Incontrandolo, tutti hanno l’impressione di aver «sentito l’irradiamento di Cristo». Ma l’opera più amata di don Edoardo Poppe è la santificazione dei sacerdoti. Un giorno dice: «Ci si lamenta che ci sono troppo pochi sacerdoti. Non è giusto. La verità è che vi sono troppo pochi sacerdoti santi. Se con i nostri sacrifici ottenessimo anche un solo sacerdote santo ogni anno, in poco tempo il mondo intero sarebbe santificato». Don Edoardo avrebbe dato la vita per ottenere un santo sacerdote, e in realtà la diede. «Io brucio dal desiderio del Regno di Dio nelle anime sacerdotali. Io brucio. Sono così povero che sarò consumato prima della venuta del Regno desiderato».

Il 27 aprile 1919 una ventina di sacerdoti, tra cui don Edoardo, si riuniscono in un monastero a Leuven. Si parla molto di opere, di attività sociali, di mezzi di apostolato. Don Edoardo desidererebbe dire le sole parole che vanno al fondo di ogni questione. L’umiltà e lo zelo si combattono in lui. Infine si decide, si alza e con voce dolce, semplicemente, umilmente, parla con parole risplendenti luce e grazia. Senza paura né rispetto umano traccia il piano di vita di povertà, di preghiera, di fede, di confidenza cieca, di obbedienza totale. La sua parola scende come una spada nelle anime. Nessuna falsa retorica: tutto è fresco e nuovo. I sacerdoti presenti ascoltano rapiti dalla chiarezza e dalla sublime evidenza in cui passa il soffio dello Spirito di Dio.

Da allora don Edoardo viene incaricato di convocare nuove riunioni. E le riunioni diventano ritiri spirituali. Quello del 1923, l’ultimo, «Pro eis sanctifico meipsum» è il suo testamento e può essere letto nel bellissimo volume “Vita sacerdotale”. Nel 1922 viene nominato, dal Card. Mercier, direttore spirituale dell’organizzazione che riunisce i religiosi missionari, gli  studenti di teologia e i chierici obbligati al servizio militare. Il cuore d’apostolo di don Edoardo esulta di gioia: formare dei futuri sacerdoti! Quale missione! Per quindici mesi don Edoardo è il saggio consigliere e il santo direttore dei giovani che si preparano a diventare sacerdoti. In poco tempo fa loro un bene immenso e imprime nel loro animo un ricordo indelebile. La sua direzione spirituale e le sue conferenze con i “Piccoli sermoni” della sera, costituiscono un vivente trattato di spiritualità e di direzione, di una semplicità dolce e commovente.

Il sacrificio consumato

Ma il momento di consumare il suo sacrificio si avvicina. Nel Natale del 1923 le sue condizioni di salute peggiorano. Non ritornerà più dai suoi giovani futuri sacerdoti. Il 6 marzo riceve i santi sacramenti e il 10 giugno 1924, martedì di Pentecoste, mentre si prepara per andare a celebrare la Santa Messa, Gesù viene a prenderlo per portarlo verso la glorificazione eterna. La salma di don Edoardo viene esposta per sei giorni. Ai funerali, che sono un trionfo, partecipano migliaia di fedeli che invocano la sua potente intercessione presso Dio. Si realizzano le parole dell’Epistola della Messa dei defunti: «Deo autem gratis, qui dedit nobis victoriam per Dominum Nostrum Jesum Christum». Sulla sua tomba viene posta una semplice croce di legno e in prossimità viene eretto un Calvario: Cristo in croce, fra sua Madre e San Giovanni. Il Mediatore, fra la Mediatrice e il sacerdote. Immagine delle tre persone che hanno riempito la sua vita sacerdotale. La breve vita e l’opera di questo santo sacerdote sembrava terminare con la sua vita terrena, ma la sua morte, invece, è stata il punto di partenza di una missione che con il tempo si è diffusa in tutta la cristianità.

Il segreto dei santi

Qual è stato il “segreto” di don Edoardo Poppe? Dobbiamo cercare la spiegazione nell’abbondanza e nell’ordine meraviglioso delle sue attitudini e dei suoi doni naturali? No, il segreto della sua vita è la santità. I grandi uomini, i forti, i sapienti non salveranno il mondo: lo salveranno i santi. Don Poppe scriveva: «La scienza è un aiuto prezioso, ma in fin dei conti, tutto si riduce alla santità e tutto dipende da essa. Un santo sa più di un sapiente, può più di un sapiente, sorpassandolo in prudenza e in discrezione». Don Poppe fu santo perché “posseduto” dal suo ideale. La grande passione della sua vita si traduce nel grido di San Paolo: «Mihi vivere Christus est! - Per me vivere è cristo». Con tutto l’ardore del suo animo egli tendeva verso il Regno di Gesù. Ogni parola, ogni pensiero, ogni azione era diretta verso questo Regno tanto desiderato. «La vita più felice e più bella non mi dice nulla se non in quanto serve alla gloria di Dio e all’avvento del suo Regno», scriveva.

Don Poppe aveva un aspetto simpatico, il viso sempre sorridente, dove brillavano due occhi pieni di intelligenza e di tenerezza. Magro, slanciato, dall’andatura composta, umile e dimessa, irradiava una tale semplicità e bontà che toglieva ogni soggezione in chi lo incontrava. La sua parola era cordiale, gioiosa, piena di immagini e di proverbi, di battute allegre che colpivano personaggi e situazioni con un colorito vivace che incantava tutti. Vestiva semplicemente, anzi poveramente, con un vecchio cappello sformato, una veste rappezzata, ma pulita e viaggiava con una scatola di cartone.

Sotto questa umile apparenza, però, si nascondeva il meraviglioso segreto di una grazia sacerdotale straordinaria e talmente abbondante che irradiava naturalmente dalla sua parola, dai suoi scritti, da tutto l’atteggiamento della sua persona. Quando parlava come sacerdote, quando ci si rivolgeva a lui come sacerdote, quando si parlava di un argomento religioso o d’apostolato, la sua anima trasfigurava il suo aspetto e, attraverso di lui, si sentiva la calda presenza di Gesù. L’impressione che se ne riceveva era straordinaria. «La prima volta che lo vidi – racconta il Card. Mercier – ne fui commosso nel profondo dell’animo: una corrente di grazia emanava da lui».

Santità sacerdotale

Con il suo esempio, più ancora che con la sua parola, don Poppe ci insegna la condizione essenziale perché l’apostolato sia fecondo. Scrive: «Noi consideriamo la santità come il mezzo d’apostolato per eccellenza insostituibile. Noi crediamo, abbiamo fede nella grazia, ci appoggiamo su questa fede alla quale Gesù ha legato la sua onnipotenza». In questi tempi di individualismo e di negazione pratica del soprannaturale anche nelle opere sacerdotali, don Poppe ci ricorda il principio della grazia, della grazia personale, dell’apostolato: «Ecco la vittoria che trionfa del mondo, la nostra fede!» (Gv 5, 4)

Don Poppe insiste sempre sul carattere che il sacramento dell’Ordine imprime nell’anima del sacerdote e sulle occupazioni della vita sacerdotale. Ci ricorda che questo carattere sacro e le sue occupazioni devono costituire una sorgente di santificazione personale per il sacerdote. L’apostolato deve essere una grazia, una preghiera, un mezzo di unione con Dio! Fin dagli anni del Seminario, don Poppe pregava che la sua vita sacerdotale fosse segnata dal Calvario, un lento martirio di tutti i giorni. La malattia lo crocifiggerà a sé stesso. Per mezzo della povertà sarà crocefisso al mondo. Don Edoardo, come Gesù, quando sarà crocefisso attirerà tutto a sé. Scrive: «Il sacerdozio è una croce e un martirio che dona pace e gioia».

Ecco il segreto che animava tutta la sua vita. Ecco anche il segreto dell’apostolato. È inutile cercarlo altrove. «La nostra azione sarà fruttuosa se sarà fecondata soprannaturalmente. Saremo noi stessi stupiti dell’abbondanza dei frutti, perché il nostro apostolato sarà opera divina. È Cristo che agirà in noi e per mezzo nostro, che parlerà con le nostre labbra e commuoverà i cuori induriti. Noi avremo gli stessi pensieri di Cristo che amava le anime, e guarderemo con gli occhi di Cristo coloro che ci verranno affidati. È la stessa forza di Cristo che metteremo in pratica in proporzione alla nostra unione con Lui». Nella spiritualità di don Edoardo Poppe la santità e l’apostolato si identificano come opere di grazia, come opere divine. Conversione, direzione, educazione cristiana sono dunque i capolavori soprannaturali: lo scopo e i mezzi sono soprannaturali. «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5).

Vita eucaristica e mariana

Tutta la vita e l’attività sacerdotale di don Edoardo fu incentrata intorno alla sorgente di grazia per eccellenza: l’Eucaristia, centro e perfezione degli altri sacramenti e verso la quale convergono tutti gli altri mezzi di santificazione. Tutto il suo metodo di educazione fu Metodo eucaristico. La Crociata eucaristica non è altro che l’applicazione di questo metodo. La sua spiritualità fu Eucaristica e per questo fu pure Gerarchica. Il Card. Mercier lo spiega nella prefazione all’opuscolo “Il metodo educativo eucaristico”: «Nostro Signore Gesù Cristo ci conferisce queste grazie per mezzo di coloro che ha scelto come suoi rappresentanti in mezzo a noi: il Papa, i Vescovi, il clero chiamato ad essere loro collaboratore. La gerarchia sacerdotale diventa così l’intermediario necessario fra Cristo e il popolo fedele. I canali della grazia sono i Sacramenti che si concentrano nella Santa Eucaristia e in essa sfociano. La gerarchia sacerdotale e il Santo Sacrificio della Messa di cui la Comunione Eucaristica fa parte integrante, sono dunque il centro della vita cristiana e perciò la chiave di volta del metodo di educazione cristiana».

Don Edoardo Poppe prende posto a fianco di San Pio X, il Papa dei Decreti sulla Comunione. San Pio X formula i princìpi, don Poppe fonda e costituisce l’ascesi e il metodo. La sua spiritualità è dunque eucaristica, è gerarchica ed è pure mariana. La Mediatrice di tutte le grazie, Maria, «è il firmamento azzurro che contiene ogni cosa, tutti i paesi illuminati dal sole della Chiesa. Gesù è il sole in questo firmamento, il sole di grazia che risplende e manda ovunque i suoi raggi… Gesù è l’Ostia, Maria l’Ostensorio. Quando noi adoriamo Gesù in Maria è un’adorazione con esposizione: adoratio in ostensorio».

Pochi sono coloro che come don Poppe, hanno penetrato così profondamente il “segreto di Maria”. Più rari ancora coloro che hanno ammesso e praticato questa missione di Maria nelle piccole cose della vita quotidiana. Parlando un giorno del Metodo e della Crociata Eucaristica, egli disse: «Ho dato alla Crociata Eucaristica una Madre e ho donato alla Madre mia la Crociata Eucaristica». Tale fu la vocazione speciale di questa vita sacerdotale. Non solo essere il grande promotore della Crociata Eucaristica e della “vera devozione a Maria”, ma soprattutto di diventare il modello e la guida del sacerdozio che deve trovare in una vita interiore di sacrificio, la sorgente della propria santificazione personale e della santificazione del proprio apostolato.

Poco prima di morire, durante gli ultimi mesi della sua breve vita don Edoardo continuerà a domandarsi se aveva fatto abbastanza per il Regno di Dio. Ma anche in questa circostanza, segue la “piccola via” di santa Teresa di Lisieux: abbandonarsi con le mani vuote al fuoco dell’amore di Dio, offrendo tutto per la santificazione dei suoi confratelli. Il più amato sacerdote delle Fiandre muore la mattina del 10 giugno 1924 a 34 anni. Era sacerdote da soli otto anni, di cui almeno quattro passati ammalato a letto o seduto su una poltrona. I suoi occhi sono fissi sull’immagine del Sacro Cuore, l’Amore misericordioso al quale si era totalmente abbandonato.

 


Da Tradizione Cattolica n° 70

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