Il 5 luglio scorso Papa Francesco ha pubblicato la sua prima enciclica, Lumen fidei (La luce della fede), firmata il 29 giugno. Nell’introduzione il pontefice menzione il lavoro del suo predecessore, indicando che aveva già quasi terminato una prima redazione del testo. Ne presentiamo una prima analisi.
Lumen fidei si vuole «in continuità con tutto ciò che il magistero della Chiesa ha proclamato»; in essa si fa esplicito riferimento – anche se solo in nota – al capitolo 3 della Costituzione Dei Filius del concilio Vaticano I (n°7, nota 7). Si analizza la «fede che riceviamo da Dio come dono soprannaturale» (n°4) ed è precisato che la fede è una virtù «teologale» e «soprannaturale», donata da Dio (n°7). Allo stesso modo si può leggere: «dato che la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità» (n°48); non si può negare neppure un solo articolo del Credo; è necessario vigilare sulla trasmissione del deposito della fede «nella sua totalità» (n°48). Ma queste sono le sole tracce dell’insegnamento tradizionale.
Tutto il resto dell’enciclica smarrisce queste troppo rare allusioni in un contesto che è loro del tutto estraneo. Questo contesto accosta l’idea della fede a quella dell’esperienza e dell’incontro personale, che mette in rapporto l’uomo e Dio, senza che si arrivi a vedere chiaramente se si tratti del rapporto intellettuale della conoscenza [1] o del rapporto affettivo dell’amore [2]. Né si capisce meglio se questo incontro personale corrisponde alle esigenze profonde della natura o se le oltrepassi introducendo l’uomo in un ordine propriamente sopranaturale [3]. Tanto più che parlando di questo rapporto non si fanno intervenire le nozioni classiche di naturale e di sopranaturale: si parla soprattutto dell’esistenza [4].
L’idea centrale è che la fede è soprattutto esistenziale, frutto dell’incontro con il Dio vivente che rivela l’amore e conduce alla comunione (n°4, n°8). Essa è essenzialmente dinamica, apertura alla promessa di Dio e memoria del futuro (n°9), apertura all’amore (n°21, n°34), unione alla sorgente della vita e ad ogni paternità (n°11), esperienza dell’amore (n°47)… Essa consiste «nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio» (n°13).
Non c’è alcuna definizione di ciò che è una virtù teologale e si cercherà invano una definizione specifica delle tre virtù teologali, che così si trovano confuse. Mai la fede è messa in rapporto con l’autorità di Dio che la rivela (la parola autorità compare una volta, al n°55, ma su un altro argomento). Non c’è altro riferimento al deposito rivelato che al n°48, ma non è definito, specialmente il fatto che sia stato chiuso alla morte dell’ultimo apostolo.
Al n°18 è ricordato che «la fede cristiana è fede nell’Incarnazione del Verbo e nella sua Risurrezione nella carne; è fede in un Dio che si è fatto così vicino da entrare nella nostra storia». Ma bisogna riconoscere che è piuttosto difficile recitare l’atto di fede a partire dalle considerazioni proposte, secondo le quali la fede si appoggia non sull’autorità di Dio che non può ingannarsi né ingannarci, ma sull’«affidabilità totale dell’amore di Dio» (n°17), e sull’affidabilità di Gesù «nel suo essere Figlio di Dio» (ibid.). In altre parole: io credo in Dio perché è Amore e non perché è Veritiero.
Si trova alla nota 23 un estratto di Dei Verbum che parla di assentire «volontariamente alla Rivelazione [di Dio]», assenso che richiede «la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità» (n°29). Ma più in là è scritto: nella professione di fede «non si tratta tanto di prestare l’assenso a un insieme di verità astratte. Al contrario, nella confessione di fede tutta la vita entra in un cammino verso la comunione piena con il Dio vivente» (n°45).
La necessità della fede per essere salvati è esposta in modo non-direttivo: il principio di salvezza «è l’apertura a qualcosa che precede, a un dono originario che afferma la vita e custodisce nell’esistenza » (n°19). Ancora: «La fede in Cristo ci salva perché è in Lui che la vita si apre radicalmente» (n°20). Siamo lontani dalla nitidezza evangelica: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato, sarà salvo; chi poi non avrà creduto, sarà condannato» (Marco 16, 15-16). Il n°34 scrive al contrario : «La luce dell’amore, propria della fede, può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità. (…) Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro».
Ci si interrogherà anche sull’efficacia catechetica della definizione di Decalogo data al n°46: «non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’"io" autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio».
Riassumendo, la fede come è presentata in Lumen fidei, è prima di tutto un’esperienza di vita e d’amore, realizzata pienamente nell’incontro con il Cristo (n°30): «La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce» (n°26). Gesù è definito l’unico Salvatore perché «tutta la luce di Dio si è concentrata in Lui, nella sua "vita luminosa", in cui si svela l’origine e la consumazione della storia» (n°35)…
È troppo presto per proporre, a partire dalla prima enciclica, una chiave di lettura dell’insegnamento di papa Francesco; la prossima – che si dice dedicata al tema della povertà – sarà più personale e ci darà una visione più chiara. Ci permettiamo solo di segnalare che Lumen fidei si situa tranquillamente nella linea dell’insegnamento post conciliare. Il Concilio Vaticano II ha voluto aprire la Chiesa al mondo moderno che si caratterizza per il suo rifiuto dell’argomento di autorità. Così il Concilio si è voluto pastorale, evitando tutte le definizioni dogmatiche per non dare l’impressione di contraddire gli spiriti contemporanei. In questa prospettiva le considerazioni sulla fede di Lumen fidei non possono non ricordare ciò che scriveva il filosofo immanentista Maurice Blondel: «se la fede aumenta la nostra conoscenza, non è essenzialmente in quanto ci insegna attraverso la testimonianza autorizzata certe verità oggettive, ma in quanto ci unisce alla vita di un soggetto, in quanto ci inizia, attraverso il pensiero amante, a un altro pensiero e a un altro amore» (M. Blondel in A. Lalande, Dictionnaire technique et critique de la philosophie, Paris, PUF, 1968, p. 360). Si tratta quindi non di imparare delle verità oggettive, ma di unirsi alla vita di un soggetto ed essere iniziato da un pensiero amante a un altro pensiero e a un altro amore. Donde sorge un problema: come accontentarsi di proporre agli spiriti moderni, infatuati d’autonomia, ciò che l’autorità della rivelazione divina ci impone? Come farlo senza dare l’impressione a tali spiriti che l’autorità della rivelazione divina contrari le loro aspirazioni all’autonomia? Senza edulcorare il deposito stesso della fede rivelata, né ammorbidirne l’autorità? Tali sono le difficoltà nelle quali si dibatte il magistero da 50 anni.
In un recente articolo, padre Jean-Dominique o.p. ricorda con quale interesse i protestanti di Taizé hanno accolto l’insegnamento non dogmatico del Concilio Vaticano II: «L’intenzione del Concilio è di abbandonare un vocabolario troppo statico e nozionistico per adottare risolutamente un linguaggio dinamico e vivente. La relazione è considerata, in tutto questo testo magnifico (Dei Verbum, documento conciliare sulla Rivelazione, ndr), come la parola vivente che il Dio vivente indirizza alla Chiesa vivente composta da membri viventi… Tutto questo testo sulla Rivelazione è dominato dai fondamentali temi evangelici di parola, di vita e di comunione. La Parola di Dio, il Cristo vivente che Dio dona agli uomini per stabilire tra Lui e loro, tra loro stessi, la comunione dello Spirito nella Chiesa». Così la Chiesa ha rinunciato «a parlare dell’accoglienza della Rivelazione in termini di sottomissione all’autorità» per parlare in primo luogo di una «fede personale che accoglie la Rivelazione di Dio» (Roger Schutz e Max Thurian, La Parole vivante au Concile, Les Presses de Taizé, 1966, p.77-78, citato da padre Jean-Dominique, Concile ou révolution ? in Le Chardonnet luglio 2013, p. 6).
Questa volontà di non ricorrere più alle definizioni dogmatiche è deplorata nella Dichiarazione dei vescovi della Fraternità San Pio X del 27 giugno 2013:
«Siamo dunque obbligati a constatare che questo Concilio atipico, che ha voluto essere solo pastorale e non dogmatico, ha inaugurato un nuovo tipo di magistero, sconosciuto fino ad allora nella Chiesa, senza radici nella Tradizione; un magistero determinato a conciliare la dottrina cattolica con le idee liberali; un magistero imbevuto dei principi modernisti del soggettivismo, dell’immanentismo e in perpetua evoluzione, conformemente al falso concetto della tradizione vivente (che si trova allo stesso modo in Maurice Blondel, ndr),in quanto altera la natura, il contenuto, il ruolo e l’esercizio del magistero ecclesiastico. »
Fonte : DICI n°279 del 19/07/13
Note:
[1] Ricorda: la fede si definisce come l’adesione della nostra intelligenza alle verità rivelate da Dio, a causa dell’autorità che le rivela. La vita spirituale ha per principio la fede che riceve dalla rivelazione la conoscenza propriamente intellettuale e dunque concettuale del mistero. Senza negare che la fede debba arricchirsi della carità e fiorire nella conoscenza amorosa, dobbiamo mantenere fermo il punto che, per essere unite nella vita spirituale concreta, fede e carità devono restare formalmente distinte nella loro definizione, agli occhi del magistero e della teologia.
[2] «Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia» (n°13); «la fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (n°26); «la fede cristiana, in quanto annuncia la verità dell’amore totale di Dio e apre alla potenza di questo amore, arriva al centro più profondo dell’esperienza di ogni uomo, che viene alla luce grazie all’amore ed è chiamato ad amare per rimanere nella luce» (n°32).
[3] «La vita nella fede, in quanto esistenza filiale, è riconoscere il dono originario e radicale che sta alla base dell’esistenza dell’uomo, e può riassumersi nella frase di san Paolo ai Corinzi: « Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? » (1 Cor 4,7)» (n°19). Si tratta del dono della creazione o del dono della grazia? Certo si dice che «colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale»; ma non è precisato se questa novità s’iscriva nell’ordine della natura in continuità con la creazione o se l’oltrepassi.
[4] «La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo» (n°4); «Per quei cristiani la fede, in quanto incontro con il Dio vivente manifestato in Cristo, era una "madre", perché li faceva venire alla luce, generava in essi la vita divina, una nuova esperienza, una visione luminosa dell’esistenza per cui si era pronti a dare testimonianza pubblica fino alla fine» (n°5); «Il Concilio Vaticano II ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni. » (n°6); «Fede, speranza e carità costituiscono, in un mirabile intreccio, il dinamismo dell’esistenza cristiana verso la comunione piena con Dio» (n°7); «Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia» (n°13); «L’inizio della salvezza è l’apertura a qualcosa che precede, a un dono originario che afferma la vita e custodisce nell’esistenza» (n°19); «Il credente è trasformato dall’Amore, a cui si è aperto nella fede, e nel suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé » (n°21); «Capire che Dio è luce gli ha dato un orientamento nuovo nell’esistenza, la capacità di riconoscere il male di cui era colpevole e di volgersi verso il bene» (n°33).