di Daniele Casi
Se fosse una favola inizierebbe così: “C'era una volta, tanto, tanto tempo fa, la riforma della Riforma Liturgica...” purtroppo, però, non si tratta di favola, bensì di fredda cronaca di pochissimi mesi addietro che, l'uragano abbattutosi sulla Sede di Pietro, pare aver ascritto ad un tempo lontanissimo. Ricapitoliamo brevemente: giusto 8 anni fa, nel corso degli auguri natalizi alla Curia Romana[1], Benedetto XVI tirò fuori dal cilindro della sua profondità teologica il tema dell'Ermeneutica del Concilio Vaticano II.
Bandita la tesi della rottura fra 'Pre' e 'Post' Concilio, fino a quel momento orgogliosamente in voga presso tutti gli episcopati, doveva affermarsi, pio desiderio pontificio, quella della ‘Continuità dell’unico soggetto Chiesa’. Per ciò che riguarda la liturgia ciò avrebbe significato che, il cosiddetto 'Vetus Ordo', della cui mai perduta vigenza ci rassicurò il 'Summorum Pontificum', avrebbe dovuto essere posto, almeno a parole, su uno stesso piano col 'Novus' e le “due forme dell'unico Rito Romano” avrebbero dovuto cominciare a comunicare fra loro “arricchendosi a vicenda”[2].
Dopo un paio d'anni dal paradigmatico discorso, nella non più Patriarcale Basilica Vaticana, prese il via, ad opera del nuovo Maestro delle Celebrazioni, un revival che molte speranze accese in tante buone anime. Prese il via un tentativo (disperato?) di salvare la “Messa di Lutero” da quelle “deformazioni al limite del sopportabile” che il Papa emerito considerava la patologia della nuova Messa e non, invece, la sua necessaria conseguenza. I nostri venticinque lettori ricorderanno i commenti estasiati su ben noti 'blog tradizionalisti' in cui, prima i ripristinati squilli delle 'Trombe d'Argento', poi il riemergere occasionale di qualche antico paramento della Sacrestia Pontificia, passando per il rientro in servizio di (pacchianissimi) troni dorati, sembravano preludio a chissà quale Reconquista.
Appare ormai chiaro che la 'restaurazione benedettiana' è stata, essenzialmente, un piccolo tentativo di maquillage liturgico che, poco o nulla, ha inciso rispetto a ben altra e consolidata prassi in voga in tutto l'Orbe. A cosa poteva servire, del resto, il Trono installato sulla grande pedana rossa a sette gradini se non s'intendeva riaffermare la struttura piramidale nel governo della Chiesa? A cos’altro mirava il crocifisso al centro dell’altare coi sette candelieri, se poi si è continuato con l’ecumenismo sincretista? A cosa, ancora, la reintroduzione del Fanone visto che si è continuato a professare l'intangibilità del "dogma" della Collegialità? L'epocale rinuncia dell'11 febbraio e l'elezione del Vescovo venuto “dalla fine del mondo”, gli unici veri momenti forti dell'Annus Fidei, hanno presto fatto suonare le campane a morto, non solo e non tanto a “drappi ed orpelli” ma a tutto il 'teorema benedettiano' di cui s'è detto. Il nuovo Vescovo di Roma l'ha fatto capire presto.
A lui le commemorazioni ed ancor più le “ermeneutiche” non interessano: il Concilio è un dono da vivere ed attuare ogni giorno. «Festeggiamo questo anniversario – ha detto in un’omelia mattutina[3], poco dopo l'elezione - facciamo un monumento, ma che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore». Parole melodiose per tutti coloro che, per otto anni, avevano, a stento, trattenuto la loro avversione ai timidissimi tentativi di correzione del Papa Emerito.
Non può, perciò, stupire che uno dei primi a gridare 'Urbi et Orbi' la sua soddisfazione per essere tornato a respirare “aria fresca” ed a vedere nel nuovo corso “una finestra aperta alla primavera e alla speranza” sia stato proprio il defenestrato ex Cerimoniere, Piero Marini. Chissà, poi, quale esultanza avrà pervaso la “tribù dei liturgisti”[4] nel leggere che: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile.
Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione»[5]. Lo stile celebrativo del nuovo Vescovo di Roma, improntato al gesuitico adagio “nec rubricat, nec cantat”, come un sogghignante p. Lombardi si è compiaciuto di spiegare alla stampa[6] quasi fosse cosa di cui vantarsi, ha poi fatto tutto il resto. Ridotto drasticamente l'uso del latino, rimessi in naftalina piviali, mitre gemmate e pianete, spariti i troni e la ferula dorata, sono invece riapparsi, assieme a nuove umilissime creazioni, i parati e la ferula di Paolo VI, testimoni, purtroppo non perduti, di un chiesa che, dimentica di sé e tremebonda di fronte ad un mondo che guardava altrove, spese miliardi per travestirsi da povera, nella chimerica idea di rendersi più accetta specialmente ai mitici “giovani” (n.d.r. sempre quelli sono il problema!) degli anni '70.
Complici, poi, la liquidazione in pieno svolgimento dei FFI, con papale divieto di celebrare col vecchio Messale, la cinquantenaria ricorrenza della promulgazione della Costituzione sulla Liturgia 'Sacrosanctum Concilium', nonché l'enfasi posta sul focus del 'Consiglio dei Cardiali’ per la riforma (anche) della Congregazione per il Culto, una composita realtà di ultrasettantenni prelati/liturgisti s'è sentita di doversi rimettere nuovamente al lavoro anche se, per ora, non si sa bene con quanto papale incitamento. «Cinquant'anni dopo, sento una grande nostalgia e il desiderio di comprendere più a fondo e di sperimentare di nuovo lo spirito del Concilio» ha detto, alcune settimane fa, il già ricordato Arcivescovo Marini.
Fra le tante occasioni che, questo cantiere liturgico in servizio permanente effettivo, ha utilizzato per dare il La alla nuova stagione di riforme, merita menzione la Giornata di studio sul 50º anniversario della Sacrosanctum Concilium, svoltasi a Roma, lo scorso 10 dicembre, su iniziativa dell'Istituto di Liturgia della Pontificia Università della Santa Croce ed a cui sono intervenuti, fra gli altri il Rev. Prof. Juan Rego, docente del medesimo Ateneo ed il Rev. Prof. Franco Magnani, Direttore dell'Ufficio Liturgico della CEI. «La forma rituale è una forma comunitaria, e pur nella fedeltà alla tradizione va modulata, con opportuni adattamenti, alle esigenze del nostro tempo» ha detto Juan Rego, «La liturgia è un dialogo fra Dio e gli uomini, nella storia»: di qui il «carattere non definitivo dell’azione liturgica in questo mondo». Mostrare la “razionalità” del rito, che ha a che fare con il “logos” divino, secondo il sacerdote opusdeista, è «il miglior servizio che si può offrire alla Chiesa come risposta al dono della Sacrosanctum Concilium».
Non ha voluto esser da meno don Magnani, capo dell'Ufficio Liturgico dei Vescovi italiani che ha dichiarato come, a 50 anni dal Concilio, si sia entrati in una “seconda fase» che richiede «una più profonda, equilibrata e completa ricezione della riforma liturgica», che porti a «superare approcci unilaterali e ideologici» con due opposti eccessi da evitare: da una parte l’«esasperato ritualismo», dall’altra uno «sciatto e banale spontaneismo». Chissà dove vorranno portare questi discorsi, tributari, peraltro, di una datata e fortemente ideologica terminologia.
Sui già ricordati ‘blog tradizionalisti’, che sono stati capaci di recuperare in rete interessanti video del Cardinale Bergoglio mentre celebra impassibile sui marciapiedi fra i bidoni dell’immondizia, allo stadio con pupazzoni danzanti o in chiesa con ballerini di Tango, impazzano da giorni isteriche congetture sui futuribili sfracelli della 'fase 2'. Si mettano tranquilli: il peggio è già in atto, dovunque, da tempo e con risultati che ben si conoscono almeno da chi li vuol vedere. Una ratifica formale sarebbe, ardisco a dirlo, perfino auspicabile: Ex operis eorum cognoscetis eos.
[1] http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2005/december/documents/hf_ben_xvi_spe_20051222_roman-curia_it.html
[2] http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2007/documents/hf_ben-xvi_let_20070707_lettera-vescovi_it.html
[3] http://it.radiovaticana.va/news/2013/04/16/il_papa:_concilio,_opera_dello_spirito_santo,_ma_c%C3%A8_chi_vuole_andare/it1-683211
[4] http://www.queriniana.it/blog/liturgia-di-ieri-o-liturgie-per-il-domani/90
[5] Intervista di Papa Francesco a ‘La Civiltà Cattolica’
[6] http://www.newscattoliche.it/p-lombardi-su-perche-papa-non-canta/