di don Michel Gleize

Argomenti pro e contro

Sembrerebbe di sì

1. Primo argomento: le nuove canonizzazioni si presentano come delle sentenze solenni del Sommo Pontefice, cioè come degli atti del suo magistero supremo che obbligano in coscienza tutti i fedeli cattolici. Quindi le nuove canonizzazioni obbligano in coscienza tutti i fedeli cattolici.

 

2. Secondo argomento: a chi obbietta che la nuova intenzione collegialista, implicata dalle riforme post-conciliari, autorizza a dubitare che le nuove canonizzazioni siano degli atti del magistero supremo del Papa, si replica che, qualunque siano stati gli antecedenti teorici, si vede bene nell’atto formale di queste nuove canonizzazioni che il Sommo Pontefice agisce a titolo del suo magistero personale.

In effetti le formule utilizzate mostrano evidentemente che il Papa, investito della sua autorità pontificale apostolica, proclama la gloria celeste e la santità del canonizzato. Anche dopo il Vaticano II, l’intenzione collegialista non fa mancare l’intenzione richiesta, così come è implicata dall’atto di canonizzazione. Le nuove canonizzazioni obbligano dunque in coscienza tutti i fedeli cattolici, in quanto atti di magistero supremo del Papa.

3. Terzo argomento: le nuove canonizzazioni si presentano come sentenze definitive, cioè ultime e perentorie, del magistero solenne, che non potranno più essere né abrogate, né modificate, né revisionate, né riesaminate: tali sentenze obbligano in coscienza tutti fedeli cattolici. In effetti i termini impiegati fino ad oggi per queste nuove canonizzazioni sono quelli attraverso i quali il Papa propone come esempio a tutta la Chiesa un fedele defunto, perché essa lo guardi come veramente santo, che gode la felicità del cielo, e ne faccia quaggiù oggetto di culto[1]. Dunque una tale sentenza è certamente definitiva in ragione anche dell’obbligo che impone a tutta la Chiesa. Se ne trae la stessa conclusione che negli altri due punti precedenti.

 4. Quarto argomento: come tutte le canonizzazioni, anche quelle avvenute dopo il Concilio Vaticano II rappresentano sentenza infallibili, infatti l’infallibilità delle canonizzazioni, senza essere ancora definita dal dogma, è una verità costantemente insegnata dalla Tradizione della Chiesa: anche se non esplicitamente definita[2], non è meno certa[3] e negare questa infallibilità meriterebbe secondo Giovanni di San Tommaso [4] la censura «sapiens haeresim et proximum errori in fide» ed equivarrebbe agli occhi di Benedetto XVI almeno alla nota di temerarietà, se non a quella di eresia[5]. Arriviamo alla stessa conclusione dei tre punti precedenti: una sentenza infallibile obbliga in coscienza tutti i fedeli cattolici.

5. Quinto argomento: a chi obbietta che una canonizzazione erronea o dubbiosa è una canonizzazione falsa e apparente, si replica che, in tal caso, Dio indurrebbe tutti i fedeli della sua Chiesa in errore su un punto di grandissima importanza e ciò ripugna alla retta ragione illuminata o meno dalla fede. Perciò arriviamo alla stessa conclusione dei quattro punti precedenti.

6. Sesto argomento: a chi obbietta che la retta ragione è in grado di discernere, caso per caso, l’eventuale assenza di santità, si replica che in questo modo si sostituisce il giudizio privato della coscienza individuale all’autorità del magistero ecclesiastico. Perciò arriviamo alla stessa conclusione dei cinque punti precedenti.

Sembrerebbe di no

7. Settimo argomento: seguendo l’esempio di monsignor Lefebvre, la Fraternità San Pio X ha deciso «di non adottare le nuove feste introdotte dopo l’instaurazione del Messale di Papa Paolo VI, per non essere nella necessità di scegliere e cadere nell’arbitrario»[6], il che equivale a decidere che le nuove canonizzazioni non obblighino in coscienza; quindi, almeno agli occhi della Fraternità San Pio X, le nuove canonizzazioni non obbligano in coscienza.

8. Ottavo argomento: il fondatore dell’Opus Dei, José Maria Escrivá de Balaguer (1902-1975), fu beatificato il 17 maggio 1992 e canonizzato il 6 ottobre 2002 da Papa Giovanni Paolo II. Benché nata prima dell’ultimo Concilio, l’opera di Escrivà de Balaguer ne veicola già certe idee cardine, proprio in quei punti in cui il Concilio si allontana dalla Tradizione della Chiesa; senza negare il carattere gerarchico della Chiesa, l’Opus Dei tende a sacralizzare lo stato laicale e a metterlo allo stesso livello dello stato sacerdotale, inoltre è imbevuto da un idea per lo meno ambigua di libertà dell’uomo: si osserva a livello personale una pratica religiosa troppo individuale, che evita gli atti di fede e di pietà pubblici, e a livello sociale l’accettazione dell’aconfessionalità degli stati, ammessa in conseguenza alla collaborazione con i partiti democristiani[7]. Se l’albero si giudica dai frutti si può ben dire che le nuove canonizzazioni non obbligano in coscienza.

Principio della risposta

 9. Le «nuove canonizzazioni» devono essere intese qui da un punto di vista teologico e non storico o cronologico. Altrimenti detto, la novità non sta semplicemente nel fatto che queste canonizzazioni sono avvenute dopo il Concilio, perché se così fosse riguarderebbe uniformemente tutte e ciascuna le canonizzazioni avvenute dopo il 1965, ma consiste nella riforma della procedura di canonizzazione e, ancor più profondamente, in uno stato d’animo che si è impossessato degli uomini di Chiesa con il favore del Concilio Vaticano II, i cui gli insegnamenti hanno compiuto «la conversione della Chiesa al mondo»[8] e consacrato «il trionfo delle idee liberali»[9]. Da queste considerazioni possono derivare numerose conseguenze e una tra le più evidenti è la nuova idea che gli uomini di Chiesa si fanno della santità e della salvezza.

10. L’autore della santità è Gesù Cristo, il Verbo Incarnato, fonte di tutte le grazie. Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che Cristo «è il compimento dell'anelito presente in tutte le religioni del mondo» e che «per ciò stesso, ne è l’unico e definitivo approdo»[10], sottolineando «l’azione molteplice e diversificata dello Spirito Santo che semina costantemente semi di verità fra tutti i popoli e nelle loro religioni» e vedendo lo Spirito di Dio come «l’agente primario del dialogo della Chiesa con tutti i popoli, culture e religioni»[11]. Solo la vera religione rivelata, la religione cattolica, dona la vita della Grazia e unisce le anime al Verbo Incarnato, mentre le altre religioni non lo possono fare, neppure se detengono una certa parte di verità e di bontà naturali. Tra la natura e la Grazia c’è molto di più che non la semplice differenza di gradazione che suggerisce l’uso della parola «semi»; dunque non si può dire che Cristo sia il compimento di tutte le religioni né che porti a maturità gli elementi naturali che vi fossero presenti. Se la Chiesa si mostra paziente con le anime ignoranti o disorientate, non nutre invece qualsivoglia rispetto per le religioni false. Ma la logica conclusione di questa confusione tra la natura e la Grazia, soggiacente ai propositi citati, è che, agli occhi d Giovanni Paolo II[12], le comunità cristiane, anche non cattoliche «hanno dei martiri della fede cristiana», convinzione che gli fa dire che «in una visione teocentrica, noi cristiani già abbiamo un Martirologio comune». La santità non è dunque un’esclusiva della religione cattolica perché «malgrado la frammentazione, che è un male da cui dobbiamo guarire, si è dunque realizzata come una comunicazione della ricchezza della grazia». I santi «vengono da tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, che hanno aperto loro l’ingresso nella comunione della salvezza»: una tale presenza universale dei santi prova la «trascendenza della potenza dello Spirito», espressione che rappresenta già un’occasione di rovina spirituale (cioè uno scandalo, nel senso teologico del termine) in quanto implica che la Grazia sia profusa indifferentemente in tutte le confessioni religiose e in quanto significa che la testimonianza resa a Dio è ugualmente valida.

11. Tali propositi sono per lo meno strani. I fedeli cattolici restano perplessi: si può legittimamente domandarsi se resta invariata la definizione stessa dell’atto con il quale il Papa proclamava finora la gloria celeste (la salvezza) e la virtù esemplare (cioè la santità) di coloro che canonizza. Una tale perplessità è la reazione normale di uno spirito sano di fronte ad un paradosso che mette sullo stesso livello un certo numero di santi che chiaramente meritano d’essere canonizzati e un certo numero di canonizzati che lo meritano in maniera dubbia. Una paradosso di questo tipo si spiega in ragione della confusione introdotta dalle riforme postconciliari e della mentalità liberale ed ecumenista che si è impadronita degli spiriti dopo il Concilio Vaticano II, ma non potremmo dissiparlo se non andando alla radice del problema e interrogandoci sulla fondatezza di queste riforme e della nuova mentalità che esprimono.

12. Dobbiamo in tutti i casi partire da una verità sicura, certa, perché costantemente proclamata dal Magistero della Chiesa durante i secoli: la canonizzazione, come tutti gli atti, si definisce innanzi tutto ed essenzialmente attraverso il suo oggetto, che corrisponde al triplice fatto che la persona storica iscritta nel catalogo dei santi è veramente santa, ha ottenuto la beatitudine eterna e richiede un culto da parte di tutta la Chiesa.

Il primo fatto (la santità) è la causa degli altri due, il secondo è la causa del terzo, il terzo è, quindi, una semplice conseguenza dei primi due; il primo e il secondo sono solamente attestati, cioè dichiarati con autorità, attraverso la canonizzazione, che non è la causa né della santità, né della gloria celeste, ma li presuppone e li constata prima di poter imporre il culto del canonizzato a tutta la Chiesa. Il discernimento della santità fa appello all’esame delle virtù eroiche e quello della beatitudine celeste all’esame dei miracoli; il discernimento, in quanto è positivo e conclude che siano presenti certamente virtù e miracoli, è riservato alla Santa Sede e, quando procede secondo le regole richieste, beneficia normalmente dell’assistenza di Dio.

Ma esiste anche un discernimento negativo, che consiste nel costatare l’assenza di virtù e miracoli, o almeno a dubitare seriamente della loro presenza, per dei motivi sufficientemente accertati. Un tale discernimento negativo è accessibile alla retta ragione, rischiarata dal lume della fede o almeno dalla semplice legge naturale, ed è sufficiente per constatare il carattere per lo meno dubbio di una canonizzazione e dedurre che questo atto non sarà obbligatorio in coscienza; inoltre un ulteriore fatto indubitabile sostiene un tale discernimento e cioè che la procedura seguita al momento del processo non offre le garanzie richieste per la sicurezza del giudizio finale, o almeno ne offre molte meno.

 13. Rispondiamo dunque alla domanda posta adottando un procedimento a posteriori, cioè partendo da un realtà che siamo obbligati a constatare: l’esistenza di questa o quella canonizzazione dove è dubbio che il fedele defunto abbia dato un buon esempio a tutta la Chiesa, abbia esercitato le virtù in modo eroico e abbia compiuto miracoli. Una tale realtà si spiega attraverso un insieme di circostanze determinanti (la riforma della nuova procedura, la nuova mentalità liberale ed ecumenica sopravvenuta dopo l’ultimo concilio), tali che il fedele cattolico non ha più la stessa certezza morale di un tempo riguardo la fondatezza di questa canonizzazione. Salvo meliori judicio, concludiamo non che, in base a una deduzione a priori, alcuna nuova canonizzazione possa obbligare in coscienza, ma che, in base ad una constatazione realista, almeno qualcuna, tra le nuove canonizzazioni, possa non obbligare in coscienza, in ragione della natura dubbia, per i motivi citati. Dunque la risposta va data caso per caso, per ogni singola canonizzazione, che va esaminata nel suo oggetto e nelle sue circostanze.

 14. Questa risposta resta certamente limitata e provvisoria, prudenziale, senza aver la pretesa di esaurire tutti gli argomenti. Ci si può domandare quale valore dare a queste nuove canonizzazioni, considerate questa volta tutte insieme in quanto tali, cioè in quanto si ritiene che diano un esempio di nuova santità. In effetti è una novità una santità che si dà per prova della «trascendenza della potenza dello Spirito» e si definisce come il risultato dell’«azione molteplice e diversificata dello Spirito Santo che semina costantemente semi di verità fra tutti i popoli e nelle loro religioni».

Risposte alle obbiezioni

15. Al primo argomento[13] rispondiamo che dopo le riforme post-conciliari, l’atto della canonizzazione non si presenta più chiaramente come un atto di magistero supremo del Sommo Pontefice. Le nuove norme promulgate nel 1983 dalla Costituzione apostolica Divinus perfectionis magister di Giovanni Paolo II [14], così come le precisazioni indicate nel Motu proprio Ad tuendam fidem del 1998[15] pongono in effetti il principio per cui, quando il Papa procede ad una canonizzazione, la sua intenzione può non essere più esclusivamente quella di compiere un atto del suo magistero personale come era accaduto fin qui; questa intenzione può essere anche soltanto quella di intervenire come organo incaricato di confermare un atto del magistero collegiale. Ma fino ad oggi tutta la tradizione teologica ha sempre guardato alla canonizzazione come all’esercizio esclusivo del magistero proprio del Papa, assimilabile a quello della locutio ex cathedra, perciò è per lo meno dubbio che gli atti pontificali compiuti conformemente a questa nuova intenzione ibrida, essa stessa definita da queste norme, possano corrispondere alla definizione di una vera canonizzazione e obbligare tutti i fedeli in coscienza.

 16. Al secondo argomento, rispondiamo che l’atto di canonizzazione, con le formule che comporta, implica normalmente, di per se stesso, l’intenzione richiesta ad un atto di magistero personale del Sommo Pontefice, ma ciò vale salvo esplicita dichiarazione contraria: è un principio generale che si applica a tutti gli atti umani, che sono precisamente degli atti compiuti in modo libero. Abbiamo un esempio nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, dove Giovanni Paolo II ricorre ad espressioni che implicano normalmente l’intenzione richiesta da una dichiarazione ex cathedra emanata dal magistero solenne del Papa; ciononostante il 27 giugno seguente il Cardinal Ratzinger dichiara a nome della Santa Sede un intenzione esplicita contraria[16], precisando che, a dispetto delle formule utilizzate da Giovanni Paolo II, il suo atto era stato voluto e doveva essere considerato da tutti i fedeli cattolici come la semplice espressione di un magistero ordinario del Papa e non come una dichiarazione solenne ex cathedra. Non si può quindi attenersi sempre e assolutamente alle sole espressioni utilizzate nel quadro dell’atto per desumerne la natura, poiché queste espressioni non sono formule magiche e non generano il valore dell’atto, come invece da un sacramento si genera la Grazia, e non sono dunque la causa, ma solo il segno dell’intenzione richiesta, della natura dell’atto[17]. Ordinariamente sono il fondamento di una presunzione, ma questa scompare nel momento in cui altri segni più eloquenti obbligano a concludere l’inverso: l’autore dell’atto resta libero di procedere come vuole, senza che le sue intenzioni siano necessariamente legate alle formule che usa. Materialmente intese, le espressioni utilizzate nel corso delle nuove canonizzazioni enunciano senza dubbio che il Papa «dichiara», «definisce» o «stabilisce». Ma la questione è sapere a quale titolo lo fa. Fin qui tali espressioni facevano implicito riferimento al giudizio personale del Papa, ma le riforme indicate nella risposta al primo argomento non autorizzano più, con sufficiente sicurezza, questo riferimento. Abbiamo delle serie ragioni per dubitare che le nuove canonizzazioni corrispondano ad altrettanti atti del magistero personale del Sommo Pontefice.

 17. Al terzo argomento, rispondiamo che la canonizzazione si definisce, in quanto sentenza definitiva, in funzione del suo oggetto formale che corrisponde al seguente triplice fatto: la persona storica che è iscritta nel catalogo dei santi è davvero santa, ha ottenuto la beatitudine eterna, si deve farne oggetto di un culto da parte di tutta la Chiesa. Tutto riposa sul fatto della santità, che è alla radice degli altri due. Infatti l’atto della canonizzazione si limita a dichiarare pubblicamente la santità, non la causa ma la presuppone. In mancanza dell’oggetto non ci può essere l’atto e così in mancanza della santità non ci può essere vera canonizzazione; tutt’al più si potrà parlare di una falsa canonizzazione, nella misura in cui si abbia a che fare con un atto che presenti le apparenza esteriori della canonizzazione senza averne la natura, nello stesso modo in cui «si dice falso oro ciò in cui appare esternamente il colore dell’oro e altri accidenti del genere, mentre internamente non soggiace la natura dell’oro per corrispondere a questi accidenti»[18]. La retta ragione rischiarata dalla fede è in grado di costatare l’assenza di santità, che è l’oggetto formale e dunque come l’essenza dell’atto di canonizzazione, nonostante le apparenze esteriori e la solennità della proclamazione pontificale, che sono soltanto accidenti, ed è per questo che non può essere altro che una falsa canonizzazione l’atto che pretenda dichiarare santo qualcuno che in realtà non lo è.

 18. Al quarto argomento[19], rispondiamo che l’infallibilità non può fare a meno di una certa diligenza umana. Nello stato di giustizia originario il primo uomo era immortale in ragione di una forza soprannaturale distribuita da Dio alla sua anima che aveva come effetto quello che l’anima preservava il suo corpo da ogni corruzione per tutto il tempo in cui essa fosse rimasta sottomessa a Dio[20]; nonostante ciò, il primo uomo aveva comunque bisogno di nutrirsi, perché l’azione soprannaturale di Dio, che conferiva l’immortalità al suo corpo, presupponeva l’azione vitale della sua anima vegetativa, certo insufficiente ma allo stesso tempo necessaria[21]: nutrirsi non rende immortali ma nulla sarebbe stato reso immortale da Dio senza nutrirsi. In modo simile l’indagare con tutta la diligenza richiesta a riguardo della santità del futuro canonizzato non rende la canonizzazione infallibile ma nessuna canonizzazione sarà resa infallibile senza una indagine sufficiente. L’assistenza divina che causa l’infallibilità si esercita in effetti alla maniera di una provvidenza, che, ben lungi dall’escludere che il Papa esamini accuratamente le testimonianze umane che attestano le virtù eroiche del futuro santo, così come i miracoli ottenuti in suo nome, l’esige necessariamente. Durante il Concilio Vaticano I, il relatore incaricato di difendere a nome della Santa Sede il capitolo IV della futura costituzione Pastor aeternus, volendo definire l’infallibilità personale del Papa, insiste proprio su questo punto, che resta vero a livello della definizione ex cathedra.

«L’infallibilità del Pontefice Romano è ottenuta non attraverso una rivelazione né come un ispirazione ma come assistenza divina. Il Papa, in virtù della sua funzione, e a causa dell’importanza del fatto è tenuto ad utilizzare i mezzi richiesti per mettere sufficientemente in luce la verità e per annunciarla correttamente. Questi mezzi saranno differenti a seconda della materia trattata e siamo tenuti a credere che quando Cristo ha promesso a San Pietro e ai suoi successori l’assistenza divina, questa promessa comprendeva anche i mezzi richiesti e necessari perché il Sommo Pontefice possa pronunciare infallibilmente il suo giudizio»[22]. Quanto affermato per la definizione ex cathedra vale tanto più per la canonizzazione dove il giudizio riguarda fatti contingenti e si appoggia su testimonianze umane fallibili. Anche san Tommaso insiste su questo punto quando afferma che l’assistenza divina è condizionata dall’esame delle testimonianze umane che attestano la santità della vita e i miracoli[23]. L’argomento dell’obbiezione è dunque difettoso, in quanto presuppone una concezione occasionalista dell’azione divina, negando ogni attività all’intermediario umano, sul piano stesso dell’assistenza richiesta dall’infallibilità.

Se si porta all’estrema conseguenza la logica di un tale ragionamento si dovrebbe concludere che il primo uomo abbia goduto dell’immortalità senza mangiare e bere, conseguenza evidentemente assurda, contro la quale si scaglia non solo la teologia ma anche il buon senso del dottore angelico. Ecco perché il processo di canonizzazione mantiene tutta la sua importanza e perché un errore in questa procedura porta a dubitare legittimamente dell’infallibilità dell’atto che tale procedura si ritiene che normalmente garantisca.

19. La procedura seguita dalla Chiesa fino al Vaticano II era espressione del rigore con il quale erano compiute le verifiche necessarie[24]. Dopo le nuove norme imposte da Giovanni Paolo II nel 1983, la parte essenziale del processo è affidata alla cura del vescovo Ordinario: indaga sulla vita del santo, sui suoi scritti, sulle sue virtù, sui suoi miracoli e compila un dossier da trasmettere alla Santa Sede. La Congregazione esamina il dossier e si pronuncia prima di sottomettere il tutto al giudizio del Papa.

Si richiede un solo miracolo per la beatificazione e di nuovo un solo miracolo per la canonizzazione[25]. L’accesso al dossier del processo di beatificazione e di canonizzazione non è per nulla agevole perciò non si ha la possibilità di verificare la serietà con la quale questa nuova procedura è messa in atto, anche se è innegabile che, presa in se stessa, non è più così rigorosa come la precedente, né tento meno realizza le garanzie richieste da parte degli uomini della Chiesa perché l’assistenza divina assicuri l’infallibilità della canonizzazione e, a maggior ragione, l’assenza di errori di fatto nella beatificazione. Peraltro, Papa Giovanni Paolo II ha deciso di fare uno strappo alla procedura attuale (che stipula che l’inizio di un processo di beatificazione non possa avvenire prima dei cinque anni dalla morte del servo di Dio) autorizzando l’introduzione della causa di Madre Teresa appena tre anni dopo la sua morte. Benedetto XVI agì nella stessa maniera per la beatificazione del suo predecessore. Il dubbio diviene ancor più legittimo conoscendo i fondati motivi della lentezza proverbiale della Chiesa in queste materie.

20. Al quinto argomento rispondiamo che non possiamo nulla contro i fatti. Dio permette che imperversi nella sua Chiesa l’esercizio di una predicazione la cui natura magisteriale è divenuta abitualmente dubbiosa sotto numerosi aspetti e contro un tal fatto nessun argomento può valere. O, più esattamente, il solo argomento al quale potrebbe ricorrere l’obbiettante sarebbe di negare il fatto e concludere che, quando Dio ci insegna attraverso il magistero ecclesiastico, la Sua parola non tiene conto del principio di non contraddizione; ma allora rispondiamo che ciò ripugna alla retta ragione, sia o meno rischiarata dalla fede. Perciò bisogna ammettere il fatto e diviene concepibile, a fortiori, che Dio possa permettere delle false canonizzazioni, tuttavia senza indurre i fedeli della sua Chiesa in errore, dal momento che restano capaci di discernere ricorrendo al criterio negativo cui abbiamo fatto riferimento all’inizio della risposta.

21. Al sesto argomento rispondiamo di nuovo che non possiamo far nulla contro una situazione d’eccezione che, pur durando da molto tempo, trova la sua origine nelle conseguenze dell’ultimo concilio. Il cattolico perplesso non è un protestante, cioè un credente emancipato da tutta l’autorità magisteriale, ma anche se perplesso rimane cattolico, cioè sottomesso per principio a questa regola della fede che è il magistero divinamente instituito da Dio. Gli uomini della Chiesa lo rendono perplesso a causa della loro mentalità liberale ma la Tradizione bisecolare della Chiesa gli dà modo di restare cattolico: il discernimento grazie al quale la retta ragione verifica l’assenza di santità si appoggia in effetti sugli insegnamenti anteriori del magistero, che hanno già sufficientemente definito la santità attraverso l’esempio di tutti i santi canonizzati fino al Vaticano II. La loro santità proviene dall’aver vissuto in conformità con il Vangelo e tutto ciò che verrà a contraddire il loro esempio su un tale punto non potrà ingannare nessuna anima di buona volontà.

22. Al settimo argomento rispondiamo che la decisione di Mons. Lefebvre esprime, direttamente, una misura di prudenza sul piano propriamente liturgico e suppone, indirettamente, un giudizio circostanziato espresso non certo su tutte la nuove canonizzazioni ma su quelle che presentano una difficoltà evidente.

23. All’ottavo argomento rispondiamo che ci sarebbe da fare una distinzione tra l’opera dell’Opus Dei e le tendenze che veicola, da una parte, e la persona, le idee e la vita del suo fondatore, dall’altra. Anche quando i fatti riportati dall’obbiezione fossero imputabili a don Escrivà, non si potrebbe concludere che la canonizzazione non obbliga in coscienza. Vero è che questo solo caso isolato sarebbe già sufficiente per testimoniare un vizio del metodo nella nuova procedura seguita per le canonizzazioni così come un’intenzione difettosa del Papa; anche se questo vizio e questo difetto si osservassero in atto in un solo caso o in alcuni casi più o meno isolati, la riforma della procedura e il nuovo stato di spirito liberale che sono alla radice potrebbero sempre farli temere in tutti gli altri casi, senza dubbio, ma c’è solo una presunzione che lascia ancora indeterminato il giudizio che potremmo eventualmente formulare su altre canonizzazioni.



[1]   Cfr per esempio AAS, 2003, p. 747 : « … beatum Josephmariam Escriva de Balaguer sanctum esse decernimus et definimus, sanctorum catalogo adscribimus, statuentes eum in universa Ecclesia inter sanctos pia devotione recoli debere ».

[2] J. Salaverri, De Ecclesia, n° 726.

[3] Cardinal Louis Billot, sj, L’Eglise. II - Sa constitution intime, Courrier de Rome, 2010, n° 601, p. 208-209; Arnaldo Xavier da Silveira, «Appendice: Legge e infallibilità» in: La Nuova Messa di Paolo VI. Cosa pensarne?, DPF, 1975, p. 164.

[4] Giovanni di San Tommaso, Cursus theologicus, su 2a2ae, questione 1, disputatio 9, articolo 2, n° 11.

[5] Traité des canonisations, libro 1, capitolo 45, n° 28.

[6] Mons. Lefebvre durante la Riunione dei Superiori della Fraternità, del 7 dicembre 1984, § 13. Ripreso in Cor unum, numero 73, ottobre 2002, p. 23-24.

[7] Il lettore potrà fare riferimento a Memorias (3 vol., Ed. Plaza & Janés-Cambio), di Laureano López Rodó, membro numerario dell’Opus Dei, ministro per il Piano di Sviluppo e successivamente ministro degli affari Esteri sotto il governo di Franco.

[8] Mons. Lefebvre, Ils L’ont découronné, Fideliter, 1987, p. 217; Trad. italiana a cura di Giuliana Cutore, Lo hanno detronizzato, Amicizia Cristiana, 2009

[9] Mons. Lefebvre, ibidem, p. 219.

[10] «Lettera apostolica Tertio Millenio Adveniente, 10 novembre 1994, n° 5» in La Documentation catholique (d’ora in poi DC), n° 2105, p. 1018.

[11] «Esortazione apostolica Ecclesia in Asia del 6 novembre 1999, n° 15» in DC 2214, p. 987.

[12] «Enciclica Ut unum sint del 25 maggio 1995, n° 82-85» in DC 2118, p. 590.

[13] Per altri dettagli, vedere il numero di febbraio 2011 del Courrier de Rome, seconda parte, § 2.

[14]Costituzione apostolica Divinus perfectionis magister, AAS, 1983, p. 351; testo di Giovanni Paolo II citato da Benedetto XVI nel suo «Messaggio ai membri dell’Assemblea plenaria della Congregazione per le cause dei santi», in data 24 aprile 2006 e pubblicato nell’edizione in lingua francese dell’Osservatore romano del 16 maggio 2006, pagina 6.

[15] Cfr il § 9 della Nota della Congregazione per la dottrina della fede, edito come commentario a questo Motu proprio, negli AAS del 1998, p. 547-548.

[16] DC 2097 del 3 luglio 1994, p. 611-615.

[17] E. Dublanchy, «Infaillibilité» nel Dictionnaire de théologie catholique, col 1703-1704; J. Salaverri, De Ecclesia, n° 623-629; Billot, n° 986-989.

[18] San Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae De veritate n° 1, articolo 10.

[19] Per maggiori dettagli, vedere il numero di febbraio 2011 del Courrier de Rome, seconda parte, § 1.

[20] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 1a parte, questione 97, articolo 1.

[21] San Tommaso d’Aquino, ibidem, articolo 3.

[22] Discorso tenuto a nome della Congregazione della fede da S. E. Mons. Gasser, vescovo di Bressanone, nella 84e assemblea generale dell’11 luglio 1870, in risposta al 53e emendamento sul quarto capitolo della costituzione De Ecclesia in Mansi, t. 52, col. 1213. Vedere anche: Cardinale Louis Billot, sj, L’Eglise. II - Sa constitution intime, Courrier de Rome, 2010, n° 991, p. 486.

[23] San Tommaso d’Aquino, Questione quodlibetale n° IX, questione 8, articolo 16, corpus et ad 2.

[24] Si può fare riferimento a T. Ortolan, «Canonisations dans l’Eglise romaine » nel Dictionnaire de théologie catholique, t. II, 2e parte, specialmente alle col. 1642-1654. «La Chiesa esige da coloro ai quali riserva l’onore della canonizzazione il possesso non di una sola virtù, ma di tutte senza eccezioni, in essi devono risplendere innanzi tutto le virtù teologali, che hanno Dio come oggetto immediato, e poi tutte le altre virtù intellettuali e morali, praticate fino all’eroismo. […] La vita dei servitori di Dio è passata al setaccio della critica più impietosa che non solo non deve trovare nulla di reprensibile, ma anzi l’eroismo in ogni circostanza».

[25] Quando si ha a che fare con una canonizzazione equipollente, cioè quando il Papa si limita a ratificare un culto già da tempo immemore, l’assistenza divina si esercita attraverso l’attività delle cause seconde che hanno diffuso e mantenuto il culto per ragioni sufficientemente fondate. Anche in questo caso, i miracoli restano richiesti, con tutto l’esame che presuppongono, e devono essere almeno tre, mentre ne bastano due per una canonizzazione formale seguita da processo. Cfr. il CJC del 1917, canone 2138. La nuova procedura del 1983 richiede un solo miracolo in entrambi i casi.

Fonte: La Tradizione Cattolica n° 1 - 2014

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