Don Pierpaolo Maria Petrucci
Il motivo di contrasto fra la Fraternità San Pio X e le autorità romane è il suo opporsi all’insegnamento attuale della Chiesa, che fonda le sue radici nell’ultimo concilio. Tale opposizione è da noi motivata dal fatto che si insegnano ora nuove dottrine in contrasto con l’insegnamento passato. Il Vaticano ci accusa per questo di avere una concezione erronea della Tradizione e del magistero della Chiesa.
Secondo Giovanni Paolo II la posizione della Fraternità San Pio X ha come origine il fatto che non si consideri la Tradizione come qualcosa di vivente, rimanendo fissati sul passato. Così si esprimeva nel 1988, all’occasione della consacrazione dei nostri quattro vescovi: «La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione».[1]
A sua volta Benedetto XVI accusa la Fraternità San Pio X di essersi fissata al magistero pre-conciliare e di non riconoscere appunto il magistero del Concilio e del post-concilio:«Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità».[2]
La Tradizione deve essere vivente, cioè interpretata dal magistero attuale che ci dice oggi ciò che è conforme o meno alla fede. Chi vuole opporre la Tradizione di ieri al magistero di oggi si erge a giudice della Chiesa e del suo insegnamento, rimpiazzandolo appunto con il suo personale giudizio.
Per sviscerare il problema, rispondere a questa obiezione e comprendere in cosa consista questa opposizione che sembra sia fondamentale risolvere, prima di poter giungere ad una soluzione giuridica fra la Fraternità San Pio X e Roma, è necessario definire e chiarire i concetti di Tradizione e magistero.
La Rivelazione
Poiché la Tradizione è la trasmissione della Rivelazione divina tramite il magistero, cominciamo con il definire tale nozione. La Rivelazione è l’atto con cui Dio si manifesta all’uomo. Egli si fa conoscere prima di tutto tramite la creazione dell’universo, che riflette gli attributi divini per sé invisibili, ed è questa la Rivelazione naturale.
In modo particolare Dio si è manifestato per mezzo dei profeti e di Gesù Cristo, facendoci conoscere direttamente verità di per sé naturali, come l’immortalità dell’anima, ma anche verità che superano la ragione dell’uomo come tutti i misteri soprannaturali, per esempio la Santissima Trinità e l’Incarnazione.
La Rivelazione soprannaturale si definisce quindi come un insegnamento fatto da Dio agli uomini in ordine alla loro santificazione e alla vita eterna.[3] Essa si è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo[4] e la Chiesa ricevette da Gesù Cristo il mandato di annunciarla a tutte le genti perché, tramite la fede nelle verità rivelate, gli uomini potessero giungere alla salvezza.
Compito della Chiesa è quindi trasmettere la Rivelazione intatta e approfondirla, attingendo dalle sue fonti che sono la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza alterarla.[5]
La Tradizione
Il termine “tradizione” è di origine greca e significa trasmissione, dottrina orale. Nel senso teologico si può definire come la parola di Dio, concernente la fede e la morale, non scritta ma trasmessa a viva voce da Gesù, dagli apostoli e da questi ai loro successori fino a noi. Parola “non scritta” non nel senso che non possa essere contenuta in alcuno scritto, ma per differenziarla dalla Sacra Scrittura, altra fonte della Rivelazione divina, che appunto è stata scritta sotto l’ispirazione divina.
La Tradizione si dice divina quando l’insegnamento venne direttamente da Gesù Cristo; divino-apostolica quando esso fu dato agli apostoli per ispirazione dello Spirito Santo secondo la promessa di Gesù: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto».[6]
Contro l’eresia protestante che nega la Tradizione come fonte della Rivelazione, il Concilio di Trento ha definito che la dottrina riguardante la fede e la morale «si contiene tanto nei libri scritti (Sacra Scrittura) quanto nelle tradizioni non scritte» e quindi bisogna ricevere con «uguale pietà e amore e riverenza» sia l’una che l’altra fonte della Rivelazione.[7]
Gesù, dopo aver predicato (e non scritto) la sua dottrina, affidò agli apostoli la missione non di scrivere ma di propagare oralmente quanto avevano udito dalle sue labbra o avrebbero imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo. «Andate dunque ad insegnare a tutte le genti» (Mt 28,18). «Andate per tutto il mondo e predicate l'evangelo a ogni creatura» (Mc 16,15).
I principali strumenti attraverso i quali si è conservata la Tradizione divina sono le professioni di fede, la sacra liturgia, gli scritti dei Padri, gli atti dei martiri, la prassi della Chiesa, i monumenti archeologici. La Rivelazione divina quindi ci proviene da due fonti: la Tradizione e la Sacra Scrittura. L’organo che ce la trasmette intatta è il magistero infallibile della Chiesa.[8]
Il magistero
Nel senso etimologico il magistero è una funzione che ha per scopo di istruire. Poiché l’oggetto del magistero ecclesiastico sono le verità di fede rivelate, questa istruzione si farà essenzialmente per testimonianza: trasmissione delle verità di fede ricevute da Dio per permettere agli uomini di giungere al fine per cui sono stati creati: la salvezza eterna.
Il magistero si può definire come il potere conferito da Gesù Cristo alla sua Chiesa in virtù del quale essa è costituita unica depositaria e autentica interprete della Rivelazione divina da proporre agli uomini come oggetto di fede per la loro salvezza eterna, in maniera infallibile in quanto assistita divinamente da Gesù Cristo.[9] Quando si parla di magistero è opportuno distinguerne il soggetto (il Papa ed i vescovi) dal contenuto (trasmissione e approfondimento del deposito rivelato) e infine dal suo modo di esercizio (infallibile o semplicemente autentico).
Chi insegna?
Il soggetto di tale potere è il Papa cui il Signore ha affidato il compito di pascere le sue pecorelle, aiutato dai vescovi. È questa la Chiesa insegnante. Si tratta di un soggetto umano e quindi volontario, assistito da Dio, nella missione che gli è stata affidata, nella misura in cui vorrà sottomettersi a questa assistenza divina ed esercitare il potere di insegnare.
L’oggetto del magistero
L’oggetto del magistero sono le verità rivelate da trasmettere, approfondire e difendere, senza alcuna variazione né cambiamento. Il magistero della Chiesa, in quanto contenuto, è essenzialmente tradizionale e costante.
Fra l’insegnamento degli apostoli e quello dei loro successori vi è una differenza importante che il card. Franzelin sintetizza con questo parole: «L’apostolato fu istituito per fondare la Chiesa predicando tutta la verità rivelata. Per questo i successori degli apostoli non possono aver per funzione di rivelare ancora un’altra verità; devono al contrario conservare e predicare nella sua integrità e nel suo significato autentico tutta la verità che gli apostoli hanno ricevuto». In altre parole il magistero degli apostoli è stato l’organo della Rivelazione mentre il magistero della Chiesa è quello della Tradizione nel suo senso più etimologico, cioè quello della trasmissione del deposito ricevuto. Per questo una tale trasmissione dipende della Rivelazione che è la sua regola ed il suo principio fondamentale. «I successori degli apostoli – continua il nostro autore – appaiono sempre come i testimoni ed i dottori incaricati di proporre unicamente ciò che hanno ricevuto dagli apostoli. Il loro incarico apostolico ed il loro compito infatti ha per oggetto il rimanere fedeli all’insegnamento che hanno ricevuto e alle verità che sono state loro affidate dagli apostoli».[10]
L’approfondimento del deposito rivelato
Il compito del magistero non consiste unicamente nel trasmettere le verità di fede ma anche nell’approfondirle, cioè darne ai fedeli una comprensione più grande. Ciò deve farsi non nel senso di una evoluzione eterogenea del dogma, ma soltanto tramite una comprensione più grande di ciò che è già stato rivelato. Il magistero contribuisce al passaggio da una conoscenza implicita ad una conoscenza più esplicita della fede. Così si esprime padre Marin Zola nel suo studio magistrale su dogma cattolico: «Gli apostoli non hanno comunicato alla Chiesa una spiegazione perfetta di tutto il senso implicito (della Rivelazione) che conoscevano esplicitamente. Però hanno lasciato il magistero dogmatico permanente, prolungamento perpetuo del loro magistero divino, per spiegare o manifestare sempre più “l’implicito” del deposito rivelato, a seconda che lo avrebbero richiesto le eresie, le controversie o le necessità di ogni epoca».[11]
Un tale approfondimento, come dichiara il Concilio Vaticano I, deve prodursi «nella stessa credenza, nello stesso senso, nello stesso pensiero». Non è mai possibile allontanarsi dal senso delle verità di fede definite «sotto il pretesto o in nome di una comprensione più approfondita».[12]
Il modo dell’insegnamento
Questa assistenza divina alla Chiesa è differente a secondo di come essa esercita il suo potere magisteriale poiché esso dipende dalla volontà del soggetto. Il Papa può insegnare in maniera infallibile, in modo semplicemente autentico, si può accontentare di riferire opinioni personali, oppure, e questo sembra essere il nocciolo del problema del concilio Vaticano II, limitarsi a dare consigli pastorali.
Il magistero infallibile
Magistero infallibile è quello in cui il Papa è assistito divinamente perché possa insegnare senza errore la verità rivelata. Egli gioisce del carisma dell’infallibilità nel suo atto solenne quando, da solo ex cathedra oppure quando si trova alla testa di tutto il corpo dei vescovi riuniti in concilio ecumenico, definisce una dottrina sulla fede o la morale in quanto pastore supremo, da tenersi da tutta la Chiesa.[13]
Nel concilio il soggetto dell’infallibilità è sempre il Papa, capo di quella persona morale che è il concilio, anche se il modo di insegnamento è diverso (non da solo ma appunto in unione con tutti i vescovi riuniti). Non vi sono due soggetti distinti del carisma dell’infallibilità ma uno solo, il Papa, che può insegnare in modi diversi. Il concilio è quindi formalmente soggetto del primato in ragione del Papa poiché, secondo il Concilio Vaticano I[14], il soggetto del primato è unico ed è il Papa.[15]
Il concilio ecumenico è quindi infallibile quando intende definire una verità di fede perché partecipa dell’infallibilità del Papa. Tale volontà di definire si può constatare nei suoi decreti quando si afferma che una verità deve essere creduta fermamente dai fedeli o ancora quando la si deve ricevere come un dogma di fede; quando si condanna con l’anatema l’errore contrario, quando la proposizione contraddittoria alla verità di fede insegnata è qualificata come eretica.
Il Papa poi può anche definire infallibilmente delle dottrine e condannare errori senza affermare esplicitamente che sono da tenersi di fede. In questo caso chi le nega non può considerarsi formalmente eretico, ma pecca gravemente contro la fede.[16]
Il magistero ordinario e universale
Il magistero infallibile del Papa si esercita in maniera ordinaria, quando egli insegna alla testa ed in unione con il corpo episcopale disperso nel mondo. È questo il Magistero ordinario universale (MOU).
Lo si chiama ordinario perché è dato al di fuori delle circostanze eccezionali delle definizioni ex cathedra e del concilio ecumenico. Esso si esercita tutti i giorni tramite la predicazione abituale dei pastori. È universale perché, per gioire della nota di infallibilità, deve esercitarsi, dal Papa e dai vescovi a lui sottomessi e dispersi nel mondo, in maniera concorde ed unanime.
Questa unanimità non deve essere soltanto considerata nello spazio, cioè tutti i vescovi viventi uniti al Papa, ma anche nel tempo per ciò che riguardo la dottrina insegnata. Esso è per definizione tradizionale, nel senso che si fa eco oggi della dottrina insegnata nei secoli.
Non definisce, come lo fa il magistero solenne, ma propone semplicemente l’oggetto della fede e lo trasmette. Un elemento che secondo Pio IX (Tua libenter) permette di riconoscere le verità che sono proposte come dogmi dal magistero ordinario della Chiesa dispersa è l’accordo unanime e costante dei teologi: «Infatti anche se si tratta di quella sottomissione che si deve prestare con un atto di fede divina, tuttavia questa non deve essere limitata a quelle cose che sono state definite con espliciti decreti dei concili o dei pontefici romani e di questa sede apostolica, ma deve essere estesa anche a quelle cose che, per mezzo del magistero ordinario di tutta la chiesa diffusa su tutta la terra, sono trasmesse come divinamente rivelate e quindi, per l’universale e costante consenso, dai teologi cattolici sono considerate come appartenenti alla fede» (Dz 2879).
La definizione dogmatica suppone l’insegnamento del magistero universale; essa precisa che tale verità, già insegnata dalla Chiesa, deve essere creduta come definita di fede divina e cattolica.
Regola prossima della fede
La Sacra Scrittura e la Tradizione sono quindi la fonte e la regola remota della fede, mentre la regola prossima è il magistero della Chiesa. Si tratta del magistero infallibile e definitivo che nel corso dei secoli ci ha trasmesso intatto ed in maniera sempre più intelligibile il deposito rivelato, senza mai alterarlo, e che deve continuare nella sua opera fino alla fine del mondo.
Sant’Agostino, facendosi eco di tutto l’insegnamento della Tradizione, affermava che egli non crederebbe neppure al Vangelo se il Magistero della Chiesa non glielo proponesse a credere.[17] Lutero ha osato impugnare questa verità vissuta già da 15 secoli di cristianesimo e, rinnegando il magistero della Chiesa, ha proclamato come unica regola di fede la Sacra Scrittura affidata all'interpretazione individuale dei fedeli. Le innumerevoli sette protestanti, con lo smarrimento e la degenerazione dottrinale che le caratterizza, sono una prova evidente del fallimento di quel falso principio.[18]
Il magistero semplicemente autentico
Il magistero semplicemente autentico è quello che si esercita senza impegnare l'infallibilità. La stessa definizione dell’infallibilità pontificia data dal Concilio Vaticano I, stabilendo le condizioni nelle quali il Papa è infallibile, lascia aperta la possibilità che, al di fuori di esse, non vi sia questa assistenza. Questo può verificarsi quando non vi è giudizio positivo sulla dottrina rivelata, ma il Papa vuol semplicemente dirimere una controversia; oppure vi è un giudizio positivo ma unicamente prudenziale e non definitivo.[19]
Gli atti di un insegnamento non infallibile reclamano comunque un assenso religioso interno, cioè dell’intelletto sotto la mozione della volontà. Questo assenso può essere sospeso solo nel caso in cui appare affermata una dottrina chiaramente in contrasto con il magistero infallibile.
Quando si constatasse «un’opposizione precisa tra un testo di enciclica e le altre testimonianze della Tradizione apostolica» allora, per il cattolico che abbia approfondito la questione, è possibile sospendere o negare il suo assenso al documento papale.[20]
Magistero vivente e perennità della fede
Poste queste premesse cerchiamo ora di rispondere alle accuse mosse alla Fraternità San Pio X di «non tener conto del carattere vivo della Tradizione» e di «voler congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962».[21]
Quando si parla di “carattere vivo della Tradizione”, se si intende la capacità che ha l’insegnamento di Gesù e degli apostoli, trasmessoci dalla Chiesa fino ad oggi tramite il suo magistero infallibile e quindi immutabile, di dare la vita spirituale alle anime e di vivificare la società contemporanea, siamo i primi ad aderire a questa verità incontestabile.
Se si intende invece il concetto di “tradizione vivente” come una caratteristica del deposito rivelato trasmesso dalla Chiesa di trasformarsi ed adattarsi ai tempi e alle circostanze fino al punto di essere in contraddizione con l’insegnamento infallibile del passato, allora siamo di fronte alla teoria modernista dell’evoluzione dei dogmi.
Se per “voler congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962” si vuol affermare che la Chiesa non ha più potere di insegnare a partire da quell’anno, chiaramente rigettiamo quest’errore e riconosciamo che la Chiesa anche oggi ha il potere di insegnare, di trasmettere e approfondire con il suo magistero infallibile la verità, e questo fino alla fine del mondo.
Ma se si intende con questa affermazione che l’autorità della Chiesa di oggi avrebbe il potere di insegnare ed obbligare a credere qualche cosa di diverso da quello che il magistero ha già definito infallibilmente, chiaramente ci troviamo di fronte ad una concezione erronea del magistero, slegata dal motivo formale per cui fu istituito da Nostro Signore, cioè la trasmissione di ciò che già è stato rivelato, approfondendolo «nello stesso senso e nello stesso pensiero».
L’attributo “vivente” può concernere il soggetto dell’atto del magistero, cioè il Papa ed i vescovi, oppure riguardare il contenuto del loro insegnamento. Per quel che è del soggetto, “vivente” si oppone a “postumo”. Il magistero postumo è quello esercitato con autorità da tutti i Papi e vescovi del passato, che continua comunque ad esercitarsi tramite i loro scritti che, in quanto infallibili, sono di loro natura immutabili. Il magistero vivente invece è l’insegnamento attuale dei pastori della Chiesa che si esercita principalmente tramite la predicazione orale fatta dai ministri legittimi, e per i loro scritti.
Ma quanto al contenuto dell’insegnamento, le professioni di fede, i dogmi, tutte le verità definite ed insegnate infallibilmente nel passato, continuano, tramite lo scritto, a far parte del magistero vivente della Chiesa e nessuna autorità ecclesiastica potrà mai legittimamente contraddirle o insegnare l’opposto.
Il magistero vivente può, come abbiamo visto, approfondire sempre di più le verità di fede già rivelate, darne una comprensione sempre più profonda, ma sempre nello stesso senso e nella stessa linea di ciò che è già stato insegnato in maniera definitiva.
In questo senso l’attributo “vivente” è una caratteristica essenziale del magistero della Chiesa. I pastori di oggi si fanno eco di quelli di ieri e quelli di domani continueranno ad annunciare il messaggio ascoltato da Gesù e dagli apostoli fino alla fine del mondo, difendendolo dagli errori e dalle eresie, per generare la fede negli uomini e dare così loro la possibilità di raggiungere la salvezza eterna.
Libero esame o difesa della fede?
“Come i protestanti anche voi giudicate il magistero della Chiesa, ma al posto della Sola Scriptura utilizzate il criterio Sola Traditione, come se non fosse la Chiesa ad insegnarci ciò che è contenuto nella Tradizione. Sostituite così il vostro giudizio a quello della Chiesa e cadete nell’errore del libero esame”. Questa l’accusa ricorrente da parte di alcuni dei nostri oppositori.
Si risponde facilmente a una tale obiezione che il criterio di giudizio non è soggettivo. Non è l’individuo che può ergersi a giudicare il magistero attuale, secondo le sue idee personali.
Il criterio di giudizio, poi, non si può neppure assumere unicamente da una sorgente del deposito rivelato, come fanno i protestanti con la Sacra Scrittura. Tale criterio può essere soltanto tutto il deposito rivelato cioè Sacra Scrittura e Tradizione come ci è stata trasmessa infallibilmente appunto dal magistero Chiesa.
Quando una contraddizione appare in maniera manifesta alla ragione fra una dottrina proposta con ciò che sono obbligato a credere, devo far riferimento a ciò che la Chiesa, guidata dal magistero, ha sempre creduto.[22] La ragione manifesta questa opposizione, ma chi permette di portare il giudizio sull’errore è il magistero definitivo della Chiesa, criterio assoluto e definitivo di verità.
Concretamente, se un giorno una qualunque autorità nella Chiesa, compreso il Papa, affermasse che nella Santissima Trinità ci sono quattro persone, non potrei essere tacciato di libero esame se affermassi che tale insegnamento è falso, perché il mistero della Santissima Trinità è già stato definito in maniera irrevocabile dalla Chiesa e quindi nel futuro essa potrà soltanto cercare di approfondire questo dogma, ma mai insegnare il contrario di ciò che ha già insegnato infallibilmente.
Ora vi è palese contraddizione fra l’insegnamento tradizionale della Chiesa e numerose nuove dottrine propagate dal Concilio Vaticano II e nel post-concilio come è stato dimostrato in numerose pubblicazioni e come teologi di rilevanza, anche nell’ambito della Chiesa ufficiale,[23] hanno anche recentemente messo in rilievo. In questa sede sarà sufficiente mostrare, con qualche citazione, come questo disaccordo è riconosciuto persino da personalità di spicco della Chiesa, che hanno partecipato attivamente all’ultimo concilio.
«Non si può negare che la Dichiarazione sulla libertà religiosa dica materialmente altra cosa che il Sillabo del 1864 e anche più o meno il contrario».[24]
«Se si cerca una diagnosi globale del testo (Gaudium et spes), si potrebbe dire che è (unitamente ai testi sulla libertà religiosa e sulle religioni del mondo) una revisione del Sillabo di Pio IX, una sorta di contro-sillabo».[25]
«Si potrebbe fare una lista impressionante delle tesi insegnate a Roma prima del Concilio come unicamente valide e che furono eliminate dai Padri del concilio».[26]
«È chiaro, sarebbe vano nasconderlo, il decreto conciliare Unitatis Redintegratio afferma su più punti altra cosa che “Fuori dalla Chiesa non vi è salvezza”, nel senso in cui si è inteso questo assioma durante dei secoli. (…) Lumen Gentium ha abbandonato la tesi che la Chiesa Cattolica sarebbe Chiesa in maniera esclusiva».[27]
«In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. (…) Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».[28]
Di fronte a questi cambiamenti che toccano la fede e sono alla radice della grave crisi che la Chiesa sta subendo, è doveroso manifestare pubblicamente la propria opposizione, alla luce del vero magistero vivo della Chiesa che è il suo insegnamento costante, infallibile e definitivo, il solo capace di illuminare l’oscurità e l’incertezza dottrinale contemporanea.
da La Tradizione Cattolica anno XXIII n° 2
[1] Giovanni Paolo II, Motu proprio Ecclesia Dei afflicta del 2 luglio 1988
[2] Benedetto XVI, Lettera ai vescovi, 10 marzo 2009
[3] Pietro Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica, ed. Studium 1952 p. 293
[4] Il decreto Lamentabili di S. Pio X nella sua 21° proposizione condanna l’errore opposto.
[5] Concilio Vaticano I, Costituzione Dei Filius, c. 4; DS 3020
[6] Gv 14,26
[7] Sess. 4
[8] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 332 et ss.
[9] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 204
[10] Tesi 22
[11] Marin Sola, L’évolution homogène du dogme catholique n° 59
[12] Conc. Vat. I Dei Filius cap. 4; DS 3020
[13] Concilio Vaticano I, Pastor aeternus, c. 4
[14] Pastor aeternus cap 3 Dz 3059
[15] La nuova teoria proposta da Lumen gentium (cap. 3, 22) secondo cui il corpo dei vescovi unito al Papa sarebbe, oltre al Papa solo, un altro soggetto permanente ed ordinario del potere supremo, è totalmente contraria all’insegnamento tradizionale della Chiesa.
[16] Non è stata ancora definita l’infallibilità per ciò che non è presentato dal Papa come di fede divina. Marin Sola, L’Evolution homogène du dogme catholique, T. I n° 269 p. 472
[17] Contra ep. fundam. C. 5, PL, 42, 176
[18] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 204
[19] Billot, De Ecclesia Q 14 Tesi 31, 1 p. 640
[20] Arnaldo Xavier da Silveira, La nouvelle messe de Paul VI: qu’en penser? DPF 1974, p. 300 et ss.
[21] Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, vedi introduzione all’articolo.
[22] È il criterio che ci propone san Vincenzo di Lerino: «Quod semper quod ubique quod ab omnibus».
[23] Come per esempio mons. Brunero Gherardini e padre Serafino Lanzetta. Leggere in particolare Lo hanno detronizzato, mons. Marcel Lefebvre, ed. Amicizia Cristiana 2009.
[24] Y. Congar, La crise de l’Eglise et Mgr Lefebvre, le Cerf 1977, p. 54
[25] I principi della teologia cattolica, Card. Ratzinger 1982
[26] Card. Suenens, I.C.I del 15 maggio 1969
[27] Congar, Essais oecumeniques, le Centurion 1984 p. 216
[28] Benedetto XVI, Discorso alla Curia, 22-12-2005