di don Luigi Moncalero
«Dalla sua pienezza abbiamo tutti ricevuto» (Gv 1, 16)
Introduzione
In un clima sempre più impregnato di naturalismo, di razionalismo, d’indifferentismo religioso, anche il cattolico praticante rischia di perdere la propria fede nel mondo soprannaturale, nell’esistenza di realtà che sono infinitamente al di sopra delle nostre povere menti, nell’esistenza di una sola Verità.
Tra i dogmi di Fede più dimenticati vi è senza dubbio quello dell’esistenza della grazia di Dio. E pensare che la grazia è il fondamento di tutto l’edificio soprannaturale: dall’avere o non avere la grazia dipende la nostra felicità o la nostra infelicità eterna. La grazia di Dio ci solleva, d’un sol colpo, ad un piano infinitamente più elevato di quello puramente naturale e terreno, sì da poter dire in verità che tra un uomo che vive nella grazia di Dio ed uno che non vive nella grazia di Dio vi è la stessa differenza che esiste tra il Cielo e la terra.
Eppure, quante volte al giorno sentiamo parlare di grazia di Dio, di mondo soprannaturale, di merito…? Gli stessi pastori della Chiesa, che più di ogni altro dovrebbero evitare anche la più piccola “parola oziosa”, quante volte ricordano alle loro sventurate pecorelle queste realtà divine? Al contrario, mettendo sullo stesso piede tutte le religioni (il famigerato “spirito di Assisi” insegna…), non si dà forse a credere che la grazia di Dio venga indifferentemente da Gesù Cristo, da Budda o Visnù?
Che questo breve studio ci aiuti a far crescere la fede in Gesù Cristo «…pieno di grazia e di verità», «Nessuno ha mai veduto Dio: l’Unigenito Figliuolo, che è nel seno del Padre, Egli ce lo ha rivelato» (Gv 1, 14 e 18).
Esiste un mondo soprannaturale
Che l’uomo agisca per un fine non c’è bisogno di dimostrarlo; è il senso comune che ce lo dice: c’è sempre un motivo alle nostre azioni. La filosofia viene a confermare questa esperienza comune: «Omne agens agit propter finem – ogni agente agisce in vista di un fine». Ma al di là degli scopi particolari vi deve essere une fine ultimo che ordina, che dirige gli altri. Per l’uomo qual è questo fine?
Deve necessariamente essere un bene perfetto, un bene delle potenze più elevate nell’uomo, cioè l’intelligenza e la volontà. L’oggetto dell’intelligenza è l’essere; l’oggetto della volontà è il bene. Intelligenza e volontà non sono “soddisfatte” fino a quando non conoscono e non abbracciano l’Essere universale e il Bene universale, cioè Dio. L’uomo raggiunge il suo fine ultimo conoscendo e amando Dio. «Siamo stati creati per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te», così sant’Agostino esprime la sete di Assoluto che anima ogni uomo. «Voglio vedere Dio!», esclamava santa Teresa d’Avila a cinque anni.
Ma come è possibile vedere Dio, cioè possederLo perfettamente? Leggiamo infatti nel vangelo di san Giovanni che «…La vita eterna è questa, che conoscano Te, unico vero Dio e Colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3): è possibile ad una creatura, con le proprie forze, vedere Dio?
La risposta non può che essere negativa: la conoscenza di Dio, avendo per oggetto l’infinito, sorpassa assolutamente la portata di qualunque facoltà creata. È impossibile che l’intelligenza umana si elevi, con le sole forze naturali, a vedere Dio. Infatti, non si ha conoscenza se l’oggetto conosciuto non è in qualche modo nel soggetto che conosce. Ora, la recettività di colui che conosce è proporzionata alla sua natura; perciò l’uomo, avendo una natura creata, non può conoscere Dio, l’Essere perfettissimo: la sproporzione tra colui che conosce e Colui che è conosciuto è troppo grande. Sarebbe come pretendere di mettere tutta l’acqua del mare in una buca! «Il conoscere l’Essere sussistente [=Dio] è connaturale al solo intelletto divino e perciò supera il potere naturale di ogni intelletto creato, perché nessuna creatura è il proprio essere, ma ha un essere partecipato» (Summa Theologica, I, q. 1, a. 12).
Tuttavia, ciò che è impossibile con le sole forze della natura è possibile con l’intervento di Dio stesso, mediante la grazia. San Paolo dice: «La vita eterna è il grazioso dono di Dio – Gratia Dei vita aeterna» (Rom 6, 23). È la grazia che apre all’uomo le porte del mondo soprannaturale, mondo ben più reale di quello che vediamo, in quanto destinato a durare per sempre. «Non può dunque l’intelletto creato vedere Dio per essenza – conclude san Tommaso – se non in quanto Dio si unisce con la sua grazia all’intelletto creato come oggetto di conoscenza» (id, ibid.).
La grazia di Dio costituisce la base di tutto l’ordine soprannaturale: ne è il principio efficiente, cioè la condizione indispensabile per poter fare del bene (un bene che abbia valore per la vita eterna): «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5); ne è il principio formale, ciò per cui possiamo avvicinarci a Dio, diventando «…partecipi della natura divina» (1Pt 1, 4).
Qui si possono già toccare con mano i disastri causati dalla dottrina modernista della Nouvelle théologie (condannata da Pio XII). Per i modernisti, in particolare Henri de Lubac, S.J., il soprannaturale è un necessario perfezionamento della natura che senza di esso verrebbe a trovarsi frustrata nelle sue aspirazioni essenziali e quindi in uno stato anormale. Per i novatori, lo stato di “natura pura” (cioè senza grazia) non è ammissibile neppure per ipotesi. Qual è la conseguenza? «Se il soprannaturale è necessario alla natura, non è più gratuito ma è dovuto e, se è dovuto alla natura, non è più soprannaturale, ma… naturale, ed infatti il naturalismo è il fondo reale del modernismo, così come della nuova teologia» (cfr. sì sì no no, «Quelli che pensano di avere vinto», 15 febbraio 1993). «Dal soprannaturale non più tale di Blondel e de Lubac – continua il medesimo articolo – alla “svolta antropocentrica” di Karl Rahner, all’indifferentismo religioso o “ecumenismo”, all’irrilevanza della Chiesa ai fini della salvezza, il passo è davvero breve» (cfr anche sì sì no no, 15 ottobre 1991).
Natura della grazia di Dio
La grazia è un dono soprannaturale di Dio. Un effetto del Suo amore per gli uomini che ha creato «a Sua immagine e somiglianza» (Gn 1, 25).
La parola “grazia” può avere tre significati, dipendenti l’uno dall’altro:
– amore per qualcuno, un’amicizia;
– un dono, conseguenza dell’amicizia;
– la riconoscenza per il dono ricevuto.
Nei due ultimi significati la grazia costituisce qualcosa in colui che la riceve: un dono, un ringraziamento. Nel primo senso la grazia non è nulla in colui che è amato: p. es., essere “nelle grazie” del sovrano non dà origine ad alcunché nella persona in questione. Ma qui bisogna notare una differenza fondamentale tra la grazia degli uomini e la grazia di Dio; tra l’amore dell’uomo e l’amore di Dio.
L’amore dell’uomo è “mosso” da un bene che già esiste. P. es., vedo un bell’oggetto, lo amo, lo desidero. Per Dio avviene esattamente il contrario: Egli causa l’essere della creatura che ama (cfr. Summa Theologica, I, q. 20, a. 2). Questo amore di Dio creatore per le sue creature ha dei gradi: vi è l’amore di Dio che crea l’essere delle piante, degli animali, la natura umana stessa; vi è poi un amore speciale di Dio che causa una realtà soprannaturale, per la quale la creatura razionale è elevata sopra la condizione della natura per partecipare al Bene divino: «Quando si dice che un uomo ha la grazia di Dio si vuole indicare un dono soprannaturale prodotto da Dio nell’uomo» (Summa Theologica, I-II, q 110, a. 1). Dono di Dio per mezzo del quale «…l’uomo, mediante la natura dell’anima, partecipa alla natura divina secondo una certa somiglianza, con una nuova generazione o creazione» (Summa Theologica, I-II, q. 110, a. 4).
La grazia trasforma la natura umana radicalmente per il fatto che inserisce nell’essenza stessa dell’anima umana, facendo di colui che la possiede una «nova creatura – una creatura nuova» (2Cor 5, 17; Gal 6, 15). Si trasforma e si eleva ciò che già esiste; si perfeziona ciò che già possiede una sua bontà. Donde il noto adagio scolastico «Gratia non tollit naturam sed perficit eam – la grazia non toglie la natura ma la perfeziona».
Effetti della grazia
Vediamo ora quali sono gli effetti della grazia di Dio nell’anima del battezzato.
a) La giustificazione. «È il passaggio dallo stato in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio, per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo Nostro Salvatore. Questo passaggio, dopo la promulgazione del Vangelo, non può avvenire senza il lavacro della rigenerazione o senza il desiderio di esso, conformemente a quanto sta scritto “Se uno non rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel Regno di Dio” (Gv 3, 5)» (Concilio di Trento, sess. VI, decr. De iustificatione, cap. IV).
Da una parte Dio infonde la grazia; dall’altra parte l’uomo, con il libero arbitrio, detesta il peccato e tende a Dio: il termine di questo “movimento” è la remissione del peccato. Qualche espressione della Sacra Scrittura, oltre a quella già citata dal Tridentino, per illustrare questo effetto della grazia:
«Lavami abbondantemente dalla mia iniquità e dal mio peccato mondami […]. Lavami, e sarò più bianco della neve» (Sal 59, 4 e 9).
«Farò che i vostri peccati, fossero pure come uno scarlatto, diventino bianchi come la neve; e se fossero rossi come la porpora, diventino come candida neve» (Is 1, 18).
«Confida, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (Mt 9, 2).
La dottrina luterana della giustificazione si trova agli antipodi della dottrina cattolica, Per Lutero, l’uomo, corrotto dal peccato originale, è incapace di discernere il bene da fare; e, in ogni modo, la volontà è incapace di compiere il bene (dottrina del servo arbitrio). Di conseguenza la giustificazione portata da Nostro Signore non ripara questo stato miserando, ma è qualcosa di puramente esteriore: Dio “finge” di non vedere i nostri peccati, pudicamente coperti con il “mantello della grazia di Cristo”. Questa “giustificazione” si ottiene mediante la fede (intesa nel senso protestante di fiducia in Dio che giustifica, e non come adesione dell’intelletto alla verità rivelata). Tuttavia – qui sta la radice del pessimismo di Lutero che lo porterà, secondo alcuni storici, a metter fine ai suoi giorni – l’uomo anche dopo il battesimo rimane radicalmente peccatore.
Oltre all’aspetto negativo di rimozione del peccato, la grazia ha altri tre effetti positivi nell’anima del giusto.
b) La partecipazione della Natura divina. “La divina potenza di Lui ci ha donato […] grandissime e preziose promesse, affinché per mezzo di queste diventiate partecipi della natura divina» (2Pt 1, 4). Tutti i doni di Dio hanno il fine di elevarci all’intimità con Lui; ma tra questi, il primo e principale è la grazia che ci pone nella società con Dio. Troviamo espliciti richiami di questa bella verità nella Liturgia:
«Salì al Cielo per far noi partecipi della Sua divinità» (Prefazio dell’Ascensione).
«O Dio, che in modo meraviglioso creasti la nobile natura dell’uomo, e più meravigliosamente l’hai riformata, concedici di diventare […] consorti della divinità di Colui che si degnò di farsi partecipe della nostra umanità» (benedizione dell’acqua all’Offertorio).
Tale conformità a Dio per mezzo della grazia è la caparra della conformità a Dio che avremo «…Quando saremo a Lui simili» (Gv 3, 2), per la partecipazione della Sua stessa Gloria, della Sua stessa felicità, del medesimo Regno, trasformati nella stessa immagine, contemplando faccia a faccia la Sua Gloria» (Mons. Antonio Martini). La grazia è veramente il semen gloriae – il seme della gloria – l’inizio della Vita eterna.
c) Inabitazione di Dio nell’anima in stato di grazia. «Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito abita in voi?» (1Cor 3, 16). I giusti, per mezzo della grazia, da servi diventano “amici” di Dio (Gv 15, 13), godono della Sua intimità come «…Concittadini dei santi e della famiglia di Dio» (Efes 3, 19); ancor più, come la sposa gode della presenza dello sposo (Mt 9, 15; Gv 3, 29; 2Cor 11, 2).
Suor Elisabetta della Trinità ha fatto dell’inabitazione di Dio nell’anima il centro e la base della sua spiritualità. «Ad ogni istante del giorno e della notte – scrive a sua madre – le Tre Persone divine abitano in te. Tu non possiedi la Santa Umanità, come quando ricevi la Comunione, ma la divinità. Questa essenza che i santi adorano in Cielo è nella tua anima. Allora, quando si sa questo, è un’intimità adorabile; non sei mai sola!». «È la Trinità tutta che abita nell’anima che l’ama in verità – scrive durante il suo ultimo ritiro spirituale – cioè che conserva la sua [di Gesù] parola. E quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, tutte le gioie naturali o anche soprannaturali che possono giungerle da parte delle creature o anche da parte di Dio, l’invitano a rientrare in se stessa per godere del Bene sostanziale che possiede, che è nient’altro che Dio stesso». «Ho trovato il Cielo sulla terra – esclama piena di gioia la santa carmelitana – perché il Cielo è Dio… e Dio è nella mia anima!» (Elisabeth de la Trinité, Ecrits spirituels, ed. du Seuil).
d) Il Merito. Quarto effetto della grazia nell’anima del giusto è di fondare il principio del merito. «Merito e mercede si riferiscono ad un identico oggetto: poiché chiamiamo mercede il compenso che si dà per una prestazione o per un lavoro, quasi come prezzo di esso» (Summa Theologica, I-II, q. 114, a. 1). Le cose di natura producono esse stesse il loro bene: non essendo dotate di libero arbitrio non si parla di “merito” o di “demerito”. L’uomo, invece, che è libero, ottiene dei beni che egli ha prodotto “moralmente”. Per esempio, il bambino che fa bene i compiti è ricompensato dalla mamma con un bel gelato: il piccolo ha “meritato” la ricompensa. Il gelato non è l’effetto fisico dei compiti fatti bene, ma è l’effetto morale, in virtù della promessa fatta dalla mamma: «Se farai bene i compiti ti comprerò il gelato». Applichiamo l’esempio alle realtà soprannaturali: l’uomo non può produrre quel bene supremo che è la Vita eterna con le sue proprie forze. Ma Dio concede la Vita eterna per modo di merito, il quale permette all’uomo di conseguire il suo fine senza sia lui stesso a produrlo. Se l’uomo può, dunque, meritare qualcosa da parte di Dio, è perché Dio Stesso ha preordinato che l’uomo ottenga il suo fine mediante le sue opere. L’uomo che è elevato dalla grazia, fatto partecipe della Natura divina, merita la Vita eterna mediante le proprie opere buone. Le merita de condigno, cioè in giustizia, in virtù della promessa divina. San Paolo esorta i fedeli di Corinto con queste parole: «Siate stabili, incrollabili, abbondando sempre nell’opera del Signore, sapendo che la fatica non è vana nel Signore». E scrivendo agli Ebrei dice loro: « Non rinunciate alla vostra ferma fiducia, la quale ha una sicura ricompensa». L’Apostolo non scriverebbe tali parole se le nostre opere fatte in stato di grazia non meritassero realmente il Paradiso.
L’essere in grazia di Dio è quindi la condizione indispensabile per poter meritare. Gesù esprime questo pensiero con un paragone molto forte: «Come il tralcio non può portare frutto da se medesimo se non rimane nella vite, così pure voi se non rimanete in Me» (Gv 15, 4). Con queste parole Gesù ci dice che l’anima che non è unita a Lui non solo non porta frutto, cioè non merita il Paradiso, ma è destinata inevitabilmente a seccare e a finire nel fuoco eterno dell’Inferno.
Conclusione: «Si scires donum Dei – Se tu conoscessi il dono di Dio!»
«Il bene di un individuo, nell’ordine della grazia, è superiore al bene naturale di tutto l’universo» (Summa Theologica, I-II, q. 113, a. 9, ad 2m). «Queste parole – commenta P. Tito Centi O.P. – non sono da prendersi come un’iperbole, ma nel loro preciso senso letterale. Tutto l’universo visibile ed invisibile, con le sue perfezioni naturali, non è paragonabile alla partecipazione diretta della vita divina che viene concessa mediante la grazia».
Dobbiamo far crescere in noi lo spirito di fede che solo può farci apprezzare il valore di questo dono di Dio. Se la fede animasse veramente la nostra vita, come potremmo barattare la grazia di Dio con qualunque altro bene terreno? Come potremmo soltanto mettere in pericolo questo tesoro prezioso, esponendoci a pericolose occasioni di peccato?
«Si scires donum Dei…» (Gv 4, 10). Se conoscessimo appieno il valore del dono di Dio, quale non sarebbe la nostra riconoscenza nei confronti di Nostro Signore Gesù Cristo da cui deriva ogni grazia, perché, come dice l’evangelista san Giovanni «…de plenitudine eius omnes nos accepimus et gratiam pro gratia – dalla Sua pienezza abbiamo tutti ricevuto, grazia su grazia» (Gv 1, 16). Alla grazia della Legge è succeduta quella del Vangelo; alla grazia della Fede succederà quella della Gloria.
«Cristo è Capo della Chiesa. In tal modo conviene a Lui comunicare la grazia agli altri, sia nelle menti degli uomini, operando la virtù mediante l’infusione della grazia; sia meritando, mediante la dottrina, le opere e le sofferenze della morte, la grazia sovrabbondante per infiniti mondi, se mai esistessero. Egli è pieno di grazia in quanto ci ha concesso la piena giustificazione che non potevamo ottenere mediante la Legge, la quale essendo imperfetta, né poteva giustificare, né condurre alla perfezione, com’è detto nell’epistola ai Romani (8, 3): “Poiché quel che era impossibile alla Legge in quanto era indebolita per via della carne, Dio, mandando Suo Figlio in carne simile a quella del peccato, condannò il peccato nella carne”» (San Tommaso d’Aquino, commento al vangelo di san Giovanni, lect. VIII, § III, n° 190).
Tratto da La Tradizione Cattolica, anno VI, n° 2, 1995, pp. 4-8. Riveduto e corretto dall’Autore.