di don Gabriele D'Avino
Quando San Tommaso omette di trattare un argomento o lo dà per scontato, in teologia si brancola nel buio. È ciò che avviene per la passione di Fuga, correlativa a quella di Desiderio o Concupiscenza, oggetto invece di una questione intera della Somma (Ia - IIae, Q. 30, artt. 1 – 4). L’Angelico dottore liquida il problema in due parole, dicendo che “la passione che si oppone direttamente al desiderio è innominata; essa si relaziona al male così come il desiderio si relaziona al bene” (Ia - IIae, Q. 30, art. 2, ad 3).
In un altro luogo, invece, pur senza dilungarsi sulla sua natura, la chiama appunto fuga (III Sent, dist. 26, Q. 1 art. 3 c.).
In effetti, a ben considerare, questo moto dell’anima non pone particolari problemi in quanto la si può comparare all’Odio di cui è un effetto, e al Timore, a cui è molto simile. La differenza sta però in ciò, che, rispetto all’Odio la Fuga è una passione “dinamica” (l’Odio, lo ricordiamo, è il semplice dispiacere di un male considerato in sé); il Timore, lo vedremo in seguito, riguarda un male considerato nella difficoltà che esiste a sfuggirlo.
La peculiarità di questa passione è che da un lato essa porta l’uomo ad allontanarsi anche fisicamente dal male percepito, e dall’altro tale male (sensibile) è considerato in sé, indipendentemente dalla difficoltà che si ha nello sfuggirgli.
La si può pertanto definire, seguendo il padre Ramirez, “allontanamento da un male distante affinché non ci colpisca sensibilmente”. Come per il Desiderio distinguevamo i moti naturali da quelli razionali, così per la Fuga: la pecora, priva di ragione, fin da subito scappa alla vista del lupo, pur senza averlo mai visto prima; se, alzando la testa, vediamo cadere una pigna dall’albero, istintivamente ci spostiamo, prima ancora di considerare razionalmente le conseguenze di un colpo del genere sulla nostra testa e fare le dovute valutazioni… In entrambi i casi abbiamo a che fare con una fuga naturale e istintiva, comune agli uomini e agli animali.
Ma in senso proprio, come passione dell’anima umana, la Fuga comporta una certa conoscenza del male distante o futuro da evitare. Se sto camminando per strada e da lontano vedo una persona che so essere molesta, e il cui incontro mi porterebbe ad esempio a litigare, o ad essere inquieto, si scatenerà in me una passione che mi porterà a cambiare strada: ora, non è di per sé qualunque persona a provocare sempre quest’avversione, ma appunto quella persona a causa di motivi ben determinati.
Come al solito, si tratta di moti neutri (fuggire un male o qualcosa che è percepita come male è nella natura delle cose); ma le circostanze e le intenzioni determineranno l’oggetto dell’azione compiuta sotto l’impulso di tali moti per farne un’azione moralmente buona o cattiva.
Per rimanere sullo stesso esempio, si pensi all’incontro di due persone che nel passato hanno compiuto insieme dei furti o delle rapine; una delle due, seriamente intenzionata a cambiare vita, ha immediatamente un moto di repulsione nei confronti del suo complice, prevedendo che dall’incontro potrà nascere un nuovo piano criminale che lo ricondurrà sulla strada del peccato… e della prigione. Allora cambierà strada, assecondando, e giustamente, la sua passione di Fuga.
In un altro caso, un peccatore incallito percepisce tra la folla un suo carissimo amico il quale ogni volta non manca di ammonirlo sulla sua cattiva condotta per tentare di convertirlo; il solo pensiero degli interminabili discorsi che l’amico zelante certamente gli farà induce il nostro peccatore a svoltare al primo incrocio; una fuga di un male percepito, certo (la noia provocata dai discorsi moraleggianti) ma che in realtà sarebbe un bene per la sua anima: la fuga dettata dall’omonima passione, in questo caso, è cattiva.
Ecco dunque che, lungi dal limitarsi ad un mero impulso irrazionale, questa passione può generare degli autentici atti di virtù: non per nulla nella vita spirituale si parla della “fuga dalle occasioni di peccato” come uno dei pilastri del progresso nella grazia; ciò che conta, infatti, è “aggiustare il tiro” nella percezione di un male; vale a dire, non sbagliarsi di oggetto. Un male sensibile, infatti, può essere un bene per l’anima: pensiamo ai martiri anche giovanissimi di tutte le epoche che, pur dinanzi alle terribili sofferenze che venivano loro prospettate, sono rimasti al loro posto individuando come vero male da fuggire l’abbandono della fede più che la graticola o la spada, o le bestie feroci del Colosseo.
Del resto, nella vita di Nostro Signore si legge di vere e proprie fughe da Lui messe in atto: in Matteo 14, 13 leggiamo che gli Apostoli vanno a riferire a Gesù la morte di San Giovanni Battista; allora “Gesù, udite queste cose, se ne andò in barca e si ritirò in un luogo deserto ed appartato”. La sua ora non era ancora venuta.
Ancora, in Giovanni 6, 14, si legge che, dopo la moltiplicazione dei pani, “La folla visto Gesù far quel miracolo, diceva: «Questi è certamente il profeta che deve apparire sulla terra». Ma Gesù, sapendo che sarebbero venuti a rapirlo per farlo re, fuggì di nuovo solo sul monte”. Quel bene apparente che era la gloria terrena di un reame, per il Redentore era invece un male che avrebbe sovvertito tutta la sua missione.
Più tardi invece, dinanzi al male apparente dell’arresto che porterà alla crocifissione, Gesù non fugge, ma anzi si fa trovare ritto di fronte ai soldati del Sinedrio, mentre i suoi più cari amici si preparavano a fuggire lasciandolo solo: “Chi cercate?” “Gesù Nazareno”. “Sono io” (Giovanni, 18, 4).