di don Gabriele D'Avino
Gli Epicurei, come afferma lapidariamente San Tommaso, consideravano buoni tutti i tipi di piaceri; gli Stoici, invece, credevano che tutti fossero cattivi. Naturalmente, entrambe le scuole di pensiero si sbagliavano: la verità, come sempre accade in una sana disputa tomista, sta nel mezzo.
San Tommaso affronta direttamente il problema della Gioia soltanto in un articolo (Ia-IIae Q. 31 a. 3) per dire che essa è una specie particolare di piacere, il quale è un genere che racchiude varie tipologie; il Piacere, in breve, è quel moto dell’anima conseguente ad una quiete goduta dopo l’acquisizione di un bene, e la sua relativa fruizione. La Gioia aggiunge a questo concetto il fatto di essere tipica degli esseri dotati di ragione: è un piacere “ragionato”, o conseguente ad un’apprensione (nel senso di apprehensio, conoscenza) dell’intelligenza. Ma per una maggiore facilità l’Aquinate tratta in quattro lunghe questioni del Piacere in generale, avendo l’accortezza di precisare via via di che piacere si tratti, se sia comune o no agli uomini ed agli animali bruti, e così via.
Nel ciclo naturale delle passioni che riguardano il bene, come abbiamo visto in precedenza, un oggetto considerato come un bene in sé è dapprima amato, cioè suscita una certa compiacenza; poi l’appetito lo desidera mentre ancora non lo possiede; infine, una volta acquisito, l’appetito ne gode la fruizione e “si riposa” in esso: ecco dunque la Gioia.
Ma a questo punto c’è bisogno di varie distinzioni: primo, quanto al modo di provare piacere: avremo dunque la semplice fruizione di un oggetto connaturale al proprio essere nel caso degli animali bruti: il leone che consuma la gazzella che ha appena catturato lo fa con una certa voracità, frutto di una delectatio nell’oggetto conquistato; l’uomo che gusta un buon piatto di pasta in un raffinato ristorante lo farà (di solito…) non senza che la ragione accompagni l’apprehensio delle sue papille gustative. Ciò si tradurrà per esempio nei complimenti fatti allo chef o nei commenti con i commensali. Tale piacere si chiamerà allora più propriamente Gioia.
Seconda distinzione, quanto alla sede della suddetta passione: come abbiamo già detto, le passioni hanno la loro sede nell’appetito sensitivo, cioè nella facoltà (comune anche agli animali) che conosce tramite i sensi esterni ed interni. Ma San Paolo così ci esorta: «Gaudete in Domino» (Fil, 4, 4), ed inoltre Dionigi l’Aeropagita afferma che gli angeli godono con Dio secondo una felicità incorruttibile (Cael. Hier. c. 15): si tratta, qui, di un “piacere” che ha sede soltanto nell’intelligenza, e che consiste in effetti nella volontà di acconsentire a ciò che vogliamo (Sant’Agostino, De Civ. Dei, 14, c.6). Dunque si tratta di una analogia: soltanto il diletto che ha sede nell’appetito sensitivo è la vera passione di Gioia, e che infatti comporta delle trasformazioni corporali; ma, beninteso, le più pure gioie spirituali possono “ridondare” nell’appetito sensitivo e provocare, ad esempio, il sorriso o altre manifestazioni esterne: non bisogna commettere l’errore di concepire l’uomo suddiviso nei compartimenti stagni delle sue varie facoltà; egli resta essenzialmente “uno”.
Ultima distinzione è quella relativa all’oggetto: si può godere di piaceri leciti, quando l’azione che li comporta è conforme alla ragione; illeciti, quando va contro la ragione, perché a quel punto non sono più connaturali all’uomo. E dunque la passione di Gioia, di per sé indifferente, risulterà moralmente buona o cattiva a seconda dell’oggetto.
Interessante notare come San Tommaso esprima l’eventualità di un piacere innaturale che, a causa della corruzione della natura, diventa quasi “connaturale” (ma solo per accidens) all’uomo: l’Angelico porta l’esempio dell’antropofagia e dell’omosessualità, «quae non sunt secundum naturam humanam» (Q. 31 a. 7 c.).
Di certo non si può dubitare che (ed è un’ulteriore distinzione quanto all’oggetto) le gioie spirituali siano superiori a quelle sensibili: il Dottore Comune nota che l’uomo è disposto anche a privarsi dei più veementi piaceri della carne pur di non perdere l’onore, che è un bene spirituale e che conferisce una gioia superiore; ma ciò vale anche quanto alla particolare gioia che si prova nel solo fatto di conoscere: è più perfetta infatti la conoscenza intellettuale, di ciò che è “intelligibile” (e quindi oggetto proprio dell’operazione umana) di quella dei sensi: con Sant’Agostino egli afferma che solo un pazzo non preferirebbe essere privato della vista piuttosto che dell’intelligenza (Q. 31, a. 5 c.). Esiste infatti una vera gioia, e l’esperienza comune lo prova, nel solo fatto di applicare la mente ad una conoscenza, nel dimostrare un teorema matematico, nel capire un problema metafisico.
Infine, l’Aquinate enumera gli effetti corporali della Gioia (Q. 33, artt. 1 – 3), e annovera fra essi la dilatazione del cuore (da cui fa derivare la parola laetitia), la “sete” di un nuovo godimento pari a quello che si sta provando (ma soltanto se è imperfetto, se manca qualcosa, se dura troppo poco: ché anzi se è completo provoca la nausea); i forti piaceri corporali impediscono l’uso della ragione secundum quandam ligationem, perché il corpo è come imprigionato nella fruizione: tipico nei lussuriosi e negli ubriaconi (a. 3 c.).
A ciò si possono aggiungere tutti quei segni esteriori che caratterizzano la Gioia e che le danno anche il nome di exultatio o di iucunditas: il sorriso, il riso, i “salti” di gioia, talvolta perfino le lacrime: tutte cose proprie soltanto agli esseri razionali.
Nostro Signore stesso non ha ricusato di lasciarci un esempio di vera Gioia, frutto della Carità e dell’osservanza dei comandamenti di Dio: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv, 15, 11). Del resto, la sola “vista” sensibile del massimo bene, di Dio cioè che è Gesù Cristo, riempie di gioia i suoi amici dopo la Resurrezione: «Gavisi sunt ergo discipuli viso Domino», «Gioirono dunque i discepoli alla vista del Signore» (Gv, 20, 20).