di don Gabriele D'Avino
Secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, quando ad Aristotele fu chiesto cosa fosse per lui la speranza, il Filosofo rispose: «Il sogno di un uomo ad occhi aperti»1. Un modo di certo poetico per designare sinteticamente quel particolare appetito sensitivo che ci pone nell’aspettativa di un bene sensibile. Ma ciò ricorda la passione di Desiderio, dalla quale la Speranza nettamente si distingue. Bisognerà dunque apportare delle precisioni ulteriori.
Le ultime cinque passioni (Speranza/Disperazione, Timore/Audacia, Ira) fanno parte del cosiddetto “appetito irascibile”, la facoltà appetitiva cioè che si pone nei confronti del bene da ottenere (o del male da evitare) considerando la difficoltà ad esso annessa. In effetti il bene oggetto di queste passioni non è visto in se stesso (così come era l’oggetto dell’appetito concupiscibile) ma stavolta in relazione al suo essere in qualche modo arduo, e dunque da perseguire o da evitare a seconda della concreta possibilità di superarne le difficoltà annesse. La cosa inoltre si complica se solo si consideri che tali difficoltà possono essere reali o apparenti, e quindi la bontà e la malizia di queste passioni saranno ricavate non solo dall’oggetto o dalla misura in cui vengono utilizzate, ma anche dalla realtà delle difficoltà prospettate. Ma andiamo con ordine.
La Speranza è la passione della facoltà appetitiva irascibile che consegue il bene arduo, futuro, possibile da acquisire (Ia – IIae, Q. 40, a. 2 c.). Arduo, cioè considerato precisamente nella sua difficoltà, e in ciò si distingue dal Desiderio. Futuro, perché appunto non ancora acquisito, e in ciò si distingue dalla Gioia. Infine possibile, relativamente alle forze e capacità del soggetto, e in ciò si distingue dalla Disperazione.
Quando un calciatore è sul terreno di gioco di fronte alla squadra avversaria, certamente anela a quel bene sensibile che è la vittoria, concretizzata in una coppa, un aumento di punteggio, o ancora semplicemente l’onore e la gloria. Ma questi beni non sono considerati dal nostro sportivo se non in maniera subordinata alla difficoltà che presenta la partita: l’avversario molto forte, le condizioni difficili del terreno, la presenza di tifosi avversari, la tensione nervosa da superare, le forze fisiche da misurare. Tutto ciò, unito alle condizioni psicologiche del calciatore, crea un quadro ben preciso (anche se ancora immaginario) che scatena, all’occorrenza, la passione di Speranza, se tutto sommato l’insieme delle difficoltà è considerato superabile. A qualche istante dal fischio d’inizio, il giocatore sarà allora animato da questa passione che certamente influirà sul suo modo di giocare, checché ne sia poi del risultato finale.
Ma cosa influisce sulla Speranza? Cos’è che causa questa passione così “positiva”, costruttiva?
Di certo, la disposizione interiore e le proprie forze costituiscono una valida spinta ad un soggetto per una facile acquisizione del bene; il P. Ramirez parla di Vigor2, una forza fisica o spirituale (intendiamo pur sempre naturale) che rende capaci del perseguimento dell’obiettivo. Chi è totalmente inadatto alla locomozione non “avrà speranza” di poter raggiungere la vetta di una montagna; similmente un uomo tardo d’ingegno non potrà ragionevolmente ambire allo studio efficace di un volume di metafisica.
San Tommaso accenna all’abbondanza di strumenti e ricchezze sufficienti3 all’opera da compiere; non sarebbe ragionevole che un capo militare sperasse la vittoria di una battaglia senza avere un esercito bene attrezzato, numeroso, in buono stato.
Infine, l’Angelico dà come causa fondamentale l’esperienza: chi ha già passato situazioni simili, già conosce l’esito possibile di una tale impresa, già sappia come utilizzare i mezzi per raggiungere il fine, sarà portato ad avere una solida speranza di riuscita. In caso contrario non tenterà l’opera (mosso dalla passione contraria di Disperazione).
È curioso come il Dottor Comune fornisca anche delle cause accidentali della Speranza, che non influiscono necessariamente sul buon esito dell’impresa da compiere (come le precedenti) ma solo sullo scatenamento della passione che porta ad agire: da un lato la giovinezza, che precisamente a causa dell’inesperienza porta a non preoccuparsi troppo dei pericoli e le difficoltà annessi all’opera, e spinge dunque piuttosto all’azione che all’inazione; dall’altro l’ebrietà, che altera la lucidità mentale necessaria ad una riflessione razionale prima dell’azione; similmente poi la stoltezza, per lo stesso motivo ma permanente e non transitoria come la precedente (v. Ia – IIae, Q. 40, a. 6 c.).
Effetti poi della passione di Speranza sono l’amore della cosa sperata e il piacere nel goderne, al momento dell’acquisizione; quanto al soggetto, in ragione della difficoltà dell’opera, l’attenzione che porta all’azione che compie.
La passione di cui ci occupiamo porta lo stesso nome ma si distingue specificamente dall’omonima virtù teologale: la virtù di Speranza, infatti, se da un lato ha come oggetto il godimento eterno di Dio e non un bene sensibile qualsiasi, dall’altro non si fonda sulle forze umane ma precisamente sull’aiuto di Dio stesso, e i meriti di Nostro Signore.
Ma queste due facoltà diverse specificamente portano lo stesso nome poiché si assomigliano nel loro funzionamento: l’attesa cioè di perseguire un bene arduo, futuro, possibile.
Sviluppare, moderare ed incoraggiare ragionevolmente la passione di Speranza, affrontando le prove della vita con la precisa intenzione di superare le difficoltà, aiuterà di certo il nostro desiderio di raggiungere poi l’unico vero Bene, con l’aiuto della Grazia divina: la vita eterna.
1 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, V, 18
2 Jabob M. Ramirez, De Passionibus animae, in “Opera Omnia”, t. V, n° 504
3 S.T. Ia – IIae, Q. 40, a. 5 c.