di don Gabriele D'Avino
Il vocabolo forte di Disperazione evoca già solo a pronunciarlo situazioni terribili, irrevocabili, definitivamente fissate nel male; evoca immediatamente l’idea del suicidio o altre soluzioni estreme. In realtà, a ben guardare, l’origine etimologica indica soltanto la rimozione della Speranza (de-speratio), a cui essa è contraria.
Secondo l’esplicazione di Padre Ramirez1, tuttavia, tale passione non è la semplice assenza di speranza (come l’ignoranza è assenza di scienza), ma si pone rispetto al bene arduo come moto positivo di allontanamento (così come, sempre nel caso della scienza, si pone l’errore in quanto proposizione positivamente contraria). In effetti, possiamo definire la Disperazione come moto dell’appetito irascibile allontanantesi dal bene futuro arduo considerato come impossibile da raggiungere.
Tale moto, di conseguenza, consiste nell’abbandonare l’idea precedentemente avuta di conquistare un certo bene, e, eventualmente, cambiare obiettivo. Una persona che abbia inizialmente deciso di attraversare la città a piedi per raggiungere un dato posto e che, essendosi accorto durante il cammino che la strada è troppo lunga, che il sole picchia forte, vede come ormai impossibile raggiungere la meta, assalito da questa passione si fermerà, o tornerà indietro, o cercherà di utilizzare i mezzi pubblici…
Così come la Speranza, la Disperazione in senso proprio è quella passionale, che riguarda un bene sensibile; presa invece in senso teologico, essa si oppone non alla passione ma alla virtù teologale di Speranza e sarà un gravissimo peccato mortale: in questo caso però l’oggetto di cui si dispera è il bene eterno.
La Disperazione passionale, di cui solo ci occupiamo, si fonda su una difficoltà vera o presunta nell’acquisizione di un bene: una difficoltà che può essere estrinseca e accidentale, riferita all’oggetto a causa di un male che si presenta: nel caso precedentemente evocato sarà il sole cocente che impedisce una serena passeggiata del nostro uomo e la rende invivibile; oppure riferita al soggetto, a causa di una debolezza di quest’ultimo: quando, sempre nell’esempio citato, la persona in questione sia troppo anziana per camminare a lungo o troppo stanca per fatiche precedenti, o semplicemente pigra; infine la difficoltà può essere intrinseca, e, per usare l’espressione di San Tommaso, ex superexcessu boni2 (“che deriva dall’eccellenza del bene in questione”), quando ad esempio il cammino da percorrere del nostro uomo, nonostante porti alla meta agognata, è oggettivamente troppo lungo perché lo si possa raggiungere a piedi in poco tempo.
Naturalmente, come in tutte le vicende umane, l’estimazione di un bene o di un male può essere falsa: la difficoltà che porta al moto passionale di disperazione può, quindi, essere reale ma anche solo apparente, purché sia percepita come insormontabile dal soggetto.
Un moto passionale, perché sia tale, necessariamente provoca degli effetti anche visibili all’esterno; il P. Ramirez individua come un effetto interiore all’anima l’odio dell’oggetto dell’appetito che non si riesce ad ottenere: è un meccanismo tipicamente umano quello di rendersi avverso l’oggetto del desiderio allorché quest’ultimo sfugge, per un motivo o l’altro, alla nostra azione. Effetti esteriori sono invece la fuga e l’abbandono del proposito: quando la meta di una passeggiata sembra ormai impossibile da raggiungere, si torna indietro o comunque si interrompe decisamente la marcia…
Infine, effetto esteriore può essere l’invidia del fatto che altri consegua il bene da noi agognato e non raggiunto: si comincia quindi a sperare (e, nel peggiore dei casi, ad adoperarsi positivamente) che gli altri non ottengano neanche essi il risultato da noi vanamente sperato.
Non bisogna commettere l’errore di credere che la Disperazione (presa appunto come passione e non come peccato deliberato) sia sempre cattiva: si può lecitamente “disperare” di ottenere qualcosa che, ad esempio, non ci competeva (una carica troppo alta per noi, un risultato accademico non alla nostra portata) ma che pure era oggetto del nostro desiderio. Si può inoltre “disperare” di ottenere qualcosa a causa delle nostre forze limitate e della nostra natura finita, senza peraltro escludere che, con un ausilio più potente, la meta sia raggiungibile.
Dato il fatto della Rivelazione, la sola natura umana ci porterebbe a disperare di ottenere la vita soprannaturale e la felicità eterna, se tale passione non fosse “assorbita” dalla Speranza teologale che ci fa desiderare, appunto, il Paradiso non per i nostri meriti ma per quelli di Gesù Cristo.
Del resto, lo stesso Gesù con tutta verosimiglianza volle provare la passione di Disperazione: la terribile notte del Giovedì Santo proruppe infatti in questa celebre esclamazione: «Padre, se possibile, passi da me questo calice3» che non attesta altro che l’estrema difficoltà da lui percepita (nella la sua natura umana) di sopportare le pene della Passione; ma in Lui non vi fu fuga, né odio o altro: soltanto una richiesta accorata al Padre di liberarlo da questa tremenda pena; richiesta, peraltro, perfettamente subordinata alla Volontà divina: «Tuttavia, non come voglio io, ma come vuoi tu4».
L’eretico Calvino volle vedere nelle sofferenze di Gesù nella passione una vera e propria Disperazione in senso teologale: si sbagliava, poiché la natura divina e la perfezione della natura umana del figlio di Dio rendono ciò assurdo: ciò non toglie che Gesù fu vero uomo, e volle essere in tutto simile a noi, anche nelle passioni, escluso il peccato5.