di Ernest Hello, tratto da «Fisionomie di santi»
San Giuseppe, l’ombra del Padre. Colui sul quale l’ombra del Padre cadde densa e profonda. San Giuseppe, l’uomo del silenzio. La parola lo sfiora appena. Il Vangelo dice di lui solo questo: «Era un uomo giusto».
Il Vangelo, così parco di parole, diventa ancora più parco quando si tratta di San Giuseppe. Si direbbe che quest’uomo, avvolto nel silenzio, ispiri il silenzio. Il silenzio di San Giuseppe è la sua lode, il suo genio, la sua atmosfera. Dove lui è, regna il silenzio. Quando l’aquila plana, dicono certi viaggiatori, il pellegrino assetato indovina una sorgente nel luogo dove cade la sua ombra, nel deserto. Il pellegrino scava e l’acqua sgorga. L’aquila aveva parlato il suo linguaggio; s’era arrestata con le ali spiegate. La cosa bella era anche utile. Chi aveva sete, scavava la sabbia, e trovava l’acqua.
Qualunque cosa si pensi di questa magnifica leggenda, e della sua verità naturale, che io non oso garantire, essa è feconda di superbi simboli. Quando l’ombra di San Giuseppe appare, il silenzio non è lontano. Bisogna scavare la sabbia che, nel suo significato simbolico, rappresenta la natura umana; bisogna scavare la sabbia e si vedrà zampillare l’acqua. L’acqua sarebbe, se volete, il silenzio profondo in cui tutte le parole sono contenute, il silenzio vivificante, refrigerante, pacificante, dissetante, il silenzio sostanziale; dove è caduta l’ombra di San Giuseppe, la sostanza del silenzio zampilla, profonda e pura, dalla natura umana scavata nell’intimo.
Non una parola di lui nella Sacra Scrittura. Mardocheo che fece fiorire Ester alla sua ombra è uno dei suoi precursori. Abramo, padre d’Isacco, rappresenta anche il padre putativo di Gesù. Giuseppe, figlio di Giacobbe, fu la sua più significativa immagine. Il primo Giuseppe conservò, in Egitto, il pane naturale. Il secondo Giuseppe custodì, in Egitto, il pane soprannaturale. Tutti e due furono uomini del mistero; il sogno rivela loro i suoi segreti. Tutti e due furono avvertiti in sogno, tutti e due indovinarono le cose nascoste. Fissi sull’abisso, i loro occhi vedevano attraverso le tenebre. Viaggiatori notturni, scoprivano le loro strade, attraverso i misteri dell’ombra. Il primo Giuseppe vide il sole e la luna prosternati davanti a lui. Il secondo Giuseppe comandò a Maria e a Gesù: Maria e Gesù obbedirono.
In quale abisso interiore doveva dimorare l’uomo che sentiva Gesù e Maria obbedirgli; l’uomo al quale erano familiari tali misteri, e al quale il silenzio rivelava il segreto di cui era il custode. Quando tagliava i suoi pezzi di legno, e vedeva il Fanciullo lavorare sotto i suoi ordini, i suoi sentimenti, approfonditi da questa situazione inaudita, si affidavano al silenzio che li approfondiva ancor più: e, dal profondo dove viveva col suo lavoro, trovava la forza di non dire agli uomini: «Il Figlio di Dio è qui».
Il suo silenzio è l’omaggio reso all’ineffabile. È la rinuncia della parola davanti all’Insondabile e all’Immenso. Tuttavia il Vangelo, che dice così poche parole, ha i secoli come commentari. I secoli scavano le sue parole e fanno sprizzare dal sasso la scintilla vivente. I secoli s’incaricano di portare alla luce le cose segrete. San Giuseppe è stato per lungo tempo ignorato; ma dopo Santa Teresa, particolarmente impegnata a rivelarlo, è molto meno sconosciuto. Ecco una cosa strana: ogni secolo ha due facce, la faccia cristiana e la faccia anticristiana. La faccia cristiana si oppone, in generale, alla faccia anticristiana con un contrasto diretto che colpisce.
Il diciannovesimo secolo è, in tutti i sensi, il secolo della Parola. Buona o cattiva, la Parola riempie il mondo. Una delle cose che ci caratterizzano è il fracasso; niente è rumoroso come l’uomo moderno. Ama il rumore, vuole farne attorno agli altri, vuole soprattutto che gli altri lo facciano attorno a lui. Il rumore è la sua passione, la sua vita, la sua atmosfera; la pubblicità sostituisce in lui mille altre passioni che muoiono soffocate da questa, che è la dominante. Il diciannovesimo secolo parla, piange, grida, si vanta e si dispera, fa mostra di tutto; pur detestando la confessione segreta, si abbandona, ogni momento, a confessioni pubbliche. Vocifera, esagera, ruggisce. Bene, sarà questo secolo di baccano che vedrà elevarsi e crescere, nel cielo della Chiesa, la gloria di San Giuseppe. San Giuseppe è scelto ufficialmente come patrono della Chiesa, nell’imperversare della tempesta. È più conosciuto, più pregato, più onorato di prima.
Fra tuoni e lampi, la rivelazione del suo silenzio si afferma insensibilmente.
Fin dove è penetrato nell’intimità di Dio?
Non lo sappiamo; ma siamo compresi, in mezzo al rumore che ci circonda, dal sentimento dell’immensa pace nella quale scorre la sua vita: è un contrasto che sembra volerci rivelare la grandezza nascosta delle cose. Molti parlano che non hanno nulla da dire, e nascondono sotto il fracasso delle loro parole e la turbolenza della loro vita, il niente del loro pensiero e dei loro sentimenti. San Giuseppe, che ha tanto da dire, San Giuseppe non parla. Custodisce in fondo all’animo le grandezze che contempla; nel suo profondo, le montagne s’innalzano sulle montagne: le montagne silenziose. Gli uomini sono stregati dal fascino del nulla. Ma San Giuseppe resta nella sua pace, padrone della sua anima e del suo silenzio, durante i sobbalzi del viaggio in Egitto, nella fuga di Gesù Cristo già perseguitato. Lui che rappresentava il Dio Padre, in mezzo ai pensieri, ai sentimenti, alle stranezze, agli incidenti e difficoltà di quel viaggio, fugge come se fosse insieme debole e colpevole; fugge in Egitto, nel paese dell’angoscia; ritorna nel terribile luogo, di dove i suoi antenati sono partiti sotto la protezione dell’Eterno. Percorre la stessa strada di Mosè, ma in senso inverso. E mentre va in Egitto, si ricorda di aver cercato un posto nella locanda senza averlo trovato.
Non c’era posto nella locanda. La storia del mondo è in queste parole; e questa storia, così abbreviata e sostanziale, non si legge; perché leggerla sarebbe comprenderla. E l’eternità non sarà troppo lunga per prendere e dare la misura di ciò che è scritto in queste parole: nessun posto nella locanda. Ce n’era per gli altri viaggiatori, non per questi. Ciò che si dava a tutti, veniva rifiutato a Maria e a Giuseppe; e dopo pochi minuti, Gesù Cristo sarebbe nato. L’Atteso delle nazioni batteva alle porte del mondo, ma non c’era posto per lui nella locanda. Il Pantheon romano, questa locanda degli idoli, offriva posto a trentamila demoni, i cui nomi si credevano divini. Ma Roma non diede posto a Gesù Cristo, nel suo Pantheon. Come se indovinasse che Gesù Cristo non voleva saperne di quel posto, e di quella compagnia. Più uno è insignificante, è più facilmente trova casa.
Chi porta un valore umano, ha maggior difficoltà a trovare il suo spazio. Chi porta una cosa stupefacente e vicina a Dio ha ancor maggiore difficoltà. Chi porta Dio non trova posto affatto. Forse indovinano che gliene occorrerebbe uno troppo grande, e per quanto si faccia piccolo, non riesce a disarmare coloro che lo respingono. Non riuscirà mai a persuaderli che somiglia agli altri uomini. Per quanto nasconda la sua grandezza, essa si rivela malgrado lui, e le porte si chiudono istintivamente al suo avvicinarsi.
Questa frase cosi breve: «perché non vi era posto per loro nella locanda» è tanto più terribile quanto più è semplice. Non perché contenga una lagnanza, un rimprovero, o un rincrescimento, ma proprio per il suo tono di semplice racconto. Le riflessioni sono eliminate, il Vangelo le lascia fare a noi. Quia non erat eis locus in diversorio. E questa parola, diversorio: questa parola che indica la molteplicità! I viaggiatori ordinari, quelli che fanno numero, avevano trovato posto nella locanda. Ma Colui che Maria portava, stava per nascere in una stalla. Era Colui che avrebbe detto un giorno: «Una sola cosa è necessaria, Unum est necessarium».
E la locanda gli era stata chiusa. Ci vorrebbe un lampo a fendere la nostra notte, mostrando tutti i secoli insieme, su un punto è un istante, perché questa parola cosi piccola, breve e semplice apparisse quale è; perché questa locanda, nella quale Maria e Giuseppe non trovarono posto, ci apparisse quale veramente è. Un lampo, per illuminare un abisso. Ma che cosa accadrebbe se i nostri occhi si aprissero?
Il padre Faber si domanda ciò che hanno pensato le madri degli innocenti che furono sgozzati poco tempo dopo. Si domanda se non abbiano fatto qualche riflessione sull’uomo e la donna che non avevano trovato posto, e sul fanciullo che aveva avuto una mangiatoia per nascere. La terra, poi, non gli avrebbe dato neppure un posto per morire; lo avrebbe gettato, dopo qualche anno, su di una croce.
Il pianeta gli fu, come la locanda, inospitale.
San Giuseppe compie nella realtà ciò che gli altri compiono in apparenza. Dopo aver custodito il Pane della vita in Egitto e aver realizzato ciò di cui il primo Giuseppe era l’ombra, ritorna a Nazareth e fa ciò che Giosuè aveva fatto. Giosuè aveva fermato il sole. Colui che era la luce del mondo aveva lasciato Giuseppe e Maria per seguire a Gerusalemme gli intenti del Padre suo. Maria e Giuseppe lo ritrovarono e lo riportarono. Il sole, che pareva avesse cominciato il suo cammino, fu fermato per diciotto anni. Dai dodici ai trent’anni Gesù resta con loro. Che età aveva quando Giuseppe morì? Non se ne sa nulla. Sembra tuttavia che Giuseppe fosse già morto quando Gesù se ne andò dalla casa. Che cosa era accaduto nella casa? Quali misteri s’erano aperti agli occhi dell’uomo, cui Gesù obbediva? Che cosa vide Giuseppe nelle azioni di Gesù Cristo? Queste azioni, con la loro stessa semplicità, prendevano senza dubbio ai suoi occhi dimensioni incommensurabili. Nel più piccolo movimento che cosa vedeva? Che cosa vedeva nella sua attività in apparenza limitata? Che cosa, nella sua ubbidienza? Quale risonanza aveva nel fondo dell’animo suo questa frase: «Io comando ed egli ubbidisce? Io tengo il posto di Dio Padre». Dietro questa frase, doveva nascondersi qualche cosa di più arcano: il silenzio stesso che l’avvolgeva.
Quando le parole umane, cercate di volta in volta dall’uomo, si riuniscono confessandosi le une alle altre incapaci di esprimere il profondo dell’anima, allora l’uomo cade in ginocchio e dal fondo dell’abisso il silenzio si innalza in lui. E poiché parte dal fondo dell’abisso, il silenzio attraversa le nubi; sale al trono di Colui che ha preso le tenebre per rifugio; sale al trono di Dio coi profumi della notte.
Il sonno, questo gran silenzio della natura, fu il tempio dove i due Giuseppe intesero la voce del cielo. Il primo Giuseppe era stato venduto a cagione di un sogno. Aveva suscitato invidia e gelosia nei fratelli. A cagione di un sogno era stato condotto in Egitto.
San Giuseppe, in sogno, ricevette l’ordine di fuggire in Egitto.
Dette il comando. La madre e il bimbo obbedirono. Mi sembra che il comandamento dovesse ispirare a San Giuseppe pensieri prodigiosi. Mi sembra che il nome di Gesù dovesse avere per lui nascoste meraviglie. Mi sembra che la sua umiltà dovesse prendere, quando comandava, proporzioni gigantesche, incommensurabili in confronto dei sentimenti conosciuti. La sua umiltà dovette raggiungere il suo silenzio; nel suo luogo, nel suo abisso. Il suo silenzio e la sua umiltà dovettero crescere, appoggiati uno all’altro. San Giuseppe sfugge alle nostre misure, che sono sorpassate dall’altezza del suo compito. Il Dio geloso gli ha affidato la Santa Vergine. Il Dio geloso gli ha affidato Gesù Cristo. L’ombra del Padre cadeva su di lui, ogni giorno più densa. Così densa che la parola osa appena avvicinarsi.
Quando era nel suo laboratorio, aveva presenti le grandi scelte patriarcali? Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. La sua stessa immagine, la sua ombra, proiettata sulla terra dal sol levante; Mosè e il centro del deserto dove fiammeggiava il cespuglio ardente; e tutti i personaggi e tutte le cose che erano il volto della realtà presente, passavano davanti agli occhi dell’anima sua? E quando lo sguardo si posava sul Fanciullo che aspettava ordini per aiutarlo nel lavoro, San Giuseppe contemplava forse nel suo spirito il nome di Dio rivelato da Mosè? Era accecato interiormente dalla luce di quei ricordi e dagli splendori del Tetragrammaton?
La Vergine, che era là, sotto la sua protezione, era la donna promessa all’umanità dalla voce dei profeti; l’universo l’attendeva alzando un altare misterioso: Virgini pariturae.
Il Fanciullo, cui egli dava ordini, è quello di cui fu scritto: Per quem majestatem tuam laudant Angeli, adorant Dominationes, tremunt Potestates.
È per Lui che tremano le potenze! L’abitudine ci priva della sublimità di un tale linguaggio. Senza il Mediatore, senza Gesù Cristo, che cosa farebbero le potenze? È di Lui che tremano. Forse senza di Lui, innanzi alla Maestà tre volte terribile, esse non oserebbero neppure tremare.