dal libro
“Lo hanno detronizzato.
Dal liberalismo all’apostasia. La tragedia conciliare.”
brani scelti
seguito
Parte Quarta - Una rivoluzione in tiara e piviale.
Capitolo XXVIII - La libertà religiosa del Vaticano II
La libertà religiosa, diritto universale alla tolleranza?
Padre Ph. André-Vincent, che s’interessava parecchio alla questione, mi scrisse un giorno per mettermi in guardia: attenzione, mi diceva, il Concilio non richiede per gli adepti delle false religioni il diritto «affermativo» di esercitare il loro culto, ma soltanto il diritto «negativo» di non essere impediti nell’esercizio, pubblico o privato, del loro culto. Insomma il Vaticano II non avrebbe fatto che generalizzare la dottrina classica della tolleranza.
In effetti, quando uno Stato cattolico, per la pace civile, per la cooperazione di tutti al bene comune, o in linea di massima per evitare un male maggiore o procurare un bene maggiore, giudica di dover tollerare l’esercizio del tale o talaltro falso culto, tale Stato può sia «chiudere gli occhi» su questo culto con una tolleranza di fatto senza prendere alcuna disposizione coercitiva a suo riguardo; sia anche accordare agli adepti di questa religione il diritto civile di non essere infastiditi nell’esercizio del loro culto. In quest’ultimo caso si tratta di un diritto puramente negativo. I papi, del resto, non mancano di sottolineare che la tolleranza civile non accorda alcun diritto «affermativo» ai dissidenti, nessun diritto di esercitare il loro culto, giacché un tal diritto affermativo non può fondarsi che sulla verità del culto preso in considerazione:
«Se le circostanze lo richiedono, si possono tollerare le deviazioni alla regola, quando queste sono state introdotte al fine di evitare mali maggiori, senza tuttavia elevarle alla dignità di diritti, giacché non può sussistere diritto alcuno contro le eterne leggi della giustizia» (217).
«Per queste cagioni, senza attribuire diritti fuorché al vero e all’onesto, ella (la Chiesa) non vieta che, per evitare un male più grande e conseguire e conservare un più gran bene, il pubblico potere tolleri qualche cosa non conforme a verità e giustizia» (218).
«Nessuno Stato, nessuna comunità di Stati, qualunque sia il loro carattere religioso, possono accordare un mandato positivo o un’autorizzazione positiva (219) ad insegnare o fare ciò che sarebbe contrario alla verità religiosa o al bene morale […] Un’altra questione essenzialmente differente è questa: in una comunità di Stati si può, almeno in determinate circostanze, stabilire la norma che il libero esercizio di una credenza o di una pratica religiosa in vigore in uno Stato-membro non sia impedita in tutto il territorio della comunità per mezzo di leggi o di ordinanze coercitive dello Stato?» (220) (e il Papa risponde affermativamente: sì, «in certe circostanze» una tale norma può essere stabilita).
Padre Baucher riassume questa dottrina in maniera eccellente: «decretando la tolleranza, scrive, si presume che il legislatore non voglia creare a vantaggio dei dissidenti il diritto o la facoltà morale di esercitare il loro culto, ma soltanto il diritto di non essere molestati nell’esercizio di tale culto. Senza mai avere il diritto di agire male, si può avere il diritto di non essere impediti di agire male, quando una legge giusta proibisca tale impedimento per ragioni sufficienti» (221).
Ma aggiunge giustamente: una cosa è il diritto civile alla tolleranza, quando quest’ultima è garantita dalla legge in vista del bene comune di questa o quella nazione, in circostanze determinate; altra cosa è il diritto sedicente naturale e inviolabile alla tolleranza per tutti gli adepti di tutte le religioni, per principio, dunque, e in qualsiasi circostanza!
Il diritto civile alla tolleranza, infatti, anche se le circostanze che lo legittimano sembrano moltiplicarsi nel nostro tempo, rimane nondimeno strettamente relativo ad esse:
«[…] la tolleranza, scrive Leone XIII, essendo un dettato di prudenza politica, va circoscritta entro i limiti del criterio che la fa nascere, e che è il supremo bene sociale. Perciò, ove questo venisse a scapitarne, e la società andasse incontro a mali maggiori, non sarebbe più permessa, perché in tal caso non potrebbe avere ragione di bene» (222).
Sarebbe stato dunque molto difficile per il Vaticano II, basandosi sugli atti del magistero anteriore, proclamare un diritto naturale e universale alla tolleranza. Del resto venne accuratamente evitato il termine «tolleranza», che sembrava davvero troppo negativo, in quanto ciò che si tollera è comunque un male; si volevano invece mettere in rilievo i valori positivi di tutte le religioni (223).
La libertà religiosa, diritto naturale all’immunità?
Senza invocare la tolleranza, il Concilio ha dunque definito un semplice diritto all’immunità: il diritto di non essere molestati nell’esercizio del proprio culto, quale esso sia.
L’astuzia, o almeno l’astuto tentativo, era evidente: non potendo definire un diritto all’esercizio di ogni culto, poiché un tale diritto non esiste per i culti erronei, ci s’ingegnò a formulare un diritto naturale alla sola immunità, che valesse per gli adepti di tutti i culti. Così tutte le «comunità religiose» (pudica denominazione che cela la Babele di religioni) avrebbero naturalmente goduto dell’immunità da ogni coercizione nel loro «culto pubblico della Divinità suprema» (di quale divinità si tratta, gran Dio?); e avrebbero beneficiato anche del «diritto di non essere impedite di insegnare e di testimoniare pubblicamente la propria fede (quale fede?) a voce e per iscritto» (DH 4).
Si può immaginare una confusione più grande? Tutti gli adepti di tutte le religioni, della vera come delle false, ridotti assolutamente sullo stesso piano di eguaglianza, godrebbero di un medesimo diritto naturale, col pretesto che questo altro non è che un «diritto all’immunità». È concepibile?
È abbastanza evidente che di per sé, a semplice titolo della loro religione erronea, gli adepti di questa non godono di alcun diritto naturale all’immunità. Consentite che vi illustri questa verità con un esempio concreto. Se mai vi venisse voglia di impedire la preghiera pubblica di un gruppo di musulmani in una strada, o anche di disturbare il loro culto in una moschea, voi eventualmente pecchereste contro la carità e sicuramente contro la prudenza, ma non rechereste nessuna ingiustizia a questi credenti. Essi non risulterebbero lesi in alcuno dei beni ai quali hanno diritto, né in alcuno dei loro diritti a tali beni (224): in alcuno dei loro beni, perché il loro vero bene non consiste nell’esercitare senza intralci il loro falso culto, ma nel potere un giorno esercitare quello vero – in alcuno dei loro diritti perché hanno appunto diritto a esercitare il «culto di Dio in privato e in pubblico» (225) e a non esserne impediti; ma il culto di Allah non è il culto di Dio! Dio stesso infatti ha rivelato il culto col quale vuole esclusivamente essere venerato, che è il culto della religione cattolica (226).
Se dunque, nell’ambito della giustizia naturale, questi credenti non vengono affatto lesi molestando o impedendo il loro culto, è perché costoro non hanno alcun diritto naturale a non essere molestati nell’esercizio di questo.
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217) Pio IX, lettera Dum civilis societas, del 1° febbraio 1875, a Charles Perrin.
218) Leone XIII, Libertas, PIN 219.
219) Diciamo affermativa.
220) Pio XII, allocuzione Ci riesce ai giuristi italiani, del 6 dicembre 1953.
221) DTC. T. IX, col. 701, articolo Libérté.
222) Libertas, PIN 221.
223) Nel capitolo XXVI ho detto quel che si deve pensare di tali valori. Non vi ritorno qui.
224) Questa distinzione viene operata da Pio XII a proposito dei prelevamenti organici operati sui corpi dei defunti. Cfr. Discorso agli specialisti della chirurgia dell’occhio, 14 maggio 1956.
225) Pio XII, Radiomessaggio di Natale, 24 dicembre 1941, PIN 804.
226) Con questa spiegazione, per breve che sia, evito con profitto di utilizzare i termini un po’ complicati di diritto oggettivo e soggettivo, di diritto concreto e astratto.