di don Gabriele D'Avino
Ha stupito qualche giorno fa la notizia, inaudita per la giurisprudenza italiana, dell’affidamento temporaneo di una bambina di tre anni ad una coppia omosessuale, provvedimento disposto dal Tribunale dei minori di Bologna.
Stupisce ancora di più la leggerezza e l’ambiguità del vicario generale della stessa diocesi invitato a pronunciarsi sull’argomento.
Monsignor Giovanni Silvagni, intervistato dal Corriere di Bologna il 16 novembre, non solo ha accuratamente evitato di condannare l’iniqua sentenza, ma ha anche lasciato trasparire la possibilità che tale sentenza sia, nel caso concreto, un bene per la bambina in questione: "Dico che bisogna pensare al bene della bambina e alle motivazioni che hanno spinto i giudici a ritenere opportuno il suo affidamento a quella coppia piuttosto che a un’altra. Non credo che il giudice abbia affidato la bimba a quelle persone perché omosessuali, ma solo per fare il bene del minore". Ponzio Pilato non avrebbe saputo "lavarsi le mani" con più eleganza…
Il bene, dunque, è una categoria che oggi, alla luce del nefasto relativismo post-conciliare, non è più oggettiva ma dipende dalle circostanze. Il prelato ammette che "un bambino ha bisogno di un papà e di una mamma", ma si affretta a precisare: "questo a livello generale, poi c’è il caso singolo, concreto". Vale a dire la solita morale di circostanza, tanto cara alla nuova teologia morale, una morale che non tiene conto della "legge" stabilita da Dio in vista del bene comune ma soltanto della dimensione esistenziale dei singoli individui e delle singole situazioni.
Ma poiché il singolo non è mai definibile (omne individuum ineffabile, secondo le regole della sana logica) la conseguenza è che i principi generali della morale diventano caduchi, e il comportamento dell’uomo (e il relativo giudizio degli altri su di esso) sarà basato unicamente su un’analisi contingente dei fatti e delle persone, analisi che non potrà non essere completamente arbitraria, legata solamente all’ispirazione personale ed al sentimento.
La Chiesa, Mater et Magistra, si spoglia così della sua autorità che ha ricevuto da Gesù Cristo per giudicare anche i casi concreti e, se necessario, condannarli pubblicamente: si pensi al pubblico peccatore di Corinto "scomunicato" da san Paolo (I Cor 5, 1-5). Ecco come invece Mons. Salvagni ritiene di dover affrontare la questione: "Davanti ai casi concreti, ritengo che sia necessario pensare alle persone concrete. Di questo caso non conosco i termini, è una questione molto delicata".
Ci dispiace dover contraddire il vicario generale, ma affidare una bambina seppur temporaneamente ad una coppia omosessuale il cui legame si fonda sul peccato contro natura (un atto che è intrinsecamente perverso) non è in nessun modo ammissibile, neanche "conoscendone i termini" perché tale affidamento va contro le finalità del matrimonio, fondato sull’unione di un uomo e di una donna e finalizzato principalmente alla procreazione ed all’educazione dei figli: in questo caso, il legame peccaminoso tra i due "genitori" vizia alla base ogni possibile educazione e rischia già in partenza di pervertire la giovane natura della bambina, che si vede privata del diritto, scandalosamente calpestato in nome dell’ideologia, a crescere e vivere in un contesto naturale.
La sorte della povera bambina non importa alla società, purché si prepari progressivamente il terreno con dei precedenti giurisprudenziali al matrimonio gay e all’adozione.
La sorte della povera bambina non importa neppure all’odierna gerarchia ecclesiastica, troppo occupata a piacere al mondo e ad essere "amica di Cesare".
Ma Dio chiederà conto delle azioni e delle omissioni di tutti, a maggior ragione di chi è chiamato ad occuparsi del gregge del Signore; la viltà di tanti uomini di Chiesa di fronte all’obbligo di confessare pubblicamente la fede quando le circostanze lo richiedono non resterà impunita: al Giudizio Universale non ci sarà nessun "Cesare" a fare da avvocato.