di Paola Dalli Cani
«Ogni giorno, quando vado a prenderla all'asilo, Sara mi corre incontro e mi abbraccia: sembra che mi dica grazie mamma per avermi voluta con te».
Tre anni fa, quando Sara venne alla luce, in una sala parto si è sfiorata la tragedia: «Me lo avevano detto subito. Portare a termine la gravidanza avrebbe voluto dire per me morte certa. Se oggi racconto la mia storia, è per dire grazie e per lanciare un messaggio di speranza e di fede». A raccontare è Maria Cavazzola, 45 anni, autista di pullman di San Giovanni Ilarione (Verona). Maria ha tre figli, il primogenito Luca che ha 15 anni, Elia che ne ha 10 e, appunto, Sara, che ha festeggiato i tre anni qualche settimana fa.
«La mia storia è stata travagliata dall'inizio. Mi sposai con la convinzione che non sarei mai potuta diventare mamma. Feci molte cure», confessa Maria, «alcune con farmaci che arrivavano direttamente dagli Stati Uniti, e non volevo sentir parlare di inseminazione. Eppure, con Fabio, mio marito, ci provammo ma persi il primo bambino. Abbandonai l'idea ma grazie ad alcune cure prima diventai mamma di Luca, poi di Elia».
La famiglia era fatta, nessuna idea di allargarla ulteriormente. Tanto più che Maria non se lo poteva più permettere dopo un intervento d'urgenza con cui gli organi dell'addome le erano stati contenuti internamente con numerosi ancoraggi artificiali. «Mi salvarono la vita, ma mi dissero anche che una eventuale gravidanza mi avrebbe uccisa. Non me ne preoccupai, avevo già 42 anni e due figli».
Nella primavera del 2010, però, l'assenza del ciclo le fa tornare in mente quella raccomandazione: «Spaventata faccio ben tre test di gravidanza. Sono tutti positivi».
Maria è incinta e l'unica emozione che sente dentro è la gioia: «Roberto Castello, il medico dell'ospedale di Borgo Trento, a Verona, che mi aveva in cura da 20 anni assieme alla collega Franca Bettinazzi, è sconvolto. Mi dicono chiaramente che portare fino in fondo la gravidanza avrebbe ucciso me oppure il bambino. Mi mandano a casa raccomandandomi di pensarci: avevo solo due settimane per decidere cosa era meglio fare». Maria uscendo dall'ospedale in realtà ha già deciso, quel bambino nascerà, costi quel che costi. Fabio la conosce bene, sa quant'è determinata sua moglie e davanti alla notizia le ripete quello che le disse quando, da fidanzati, lei gli disse che di figli non ce ne sarebbero stati: «Anche senza gambe, ma ti sposo».
Lei continua a lavorare, realizza il desiderio di accompagnare un gruppo ad Assisi, entra a Santa Chiara e poi incontra una suora di clausura a cui racconta la sua storia. Le ripete la domanda che le ha fatto il medico e che in parte la tormenta: «Vale la pena di buttar via una persona per un rischio?». La risposta sta nella preghiera, «ma pur sapendo che rischiavo tutto, non avrei mai detto no a quella nuova vita». In quei mesi le capita anche un viaggio a Lourdes: «Ci ero andata tante volte ma non ero mai riuscita ad andare alle piscine. Quella volta sentii che dovevo andare: quando mi immersero», prosegue Maria, «sentii una stretta fortissima nella pancia e pensai la stessa cosa che mi venne in mente qualche tempo prima a Cascia. Mi ero convinta di aver fatto qualcosa di sbagliato, con quell'inseminazione andata male, e che ero stata chiamata a pagare per il mio errore».
Maria e Fabio attendono quanto più possibile per comunicare la cosa alla famiglia: portano i figli dal medico che esegue l'ecografia e fanno loro vedere in anteprima il bambino. Il medico raccomanda cautela: «Dì loro che stai poco bene», suggeriscono, ma Maria fa di testa sua: «Male? No, c'è solo in arrivo un fratellino», replica lei.
Poi tocca avvisare la famiglia: «Silenzio gelido», racconta Maria, «e una parente che se ne va sconvolta gridando contro quella decisione che avrebbe lasciato soli tre figli senza una mamma».
Maria però, è sicura e lo è fino alla vigilia del parto cesareo. «Avevo paura, i miei giorni stavano finendo. Avevo paura del dopo e il pensiero che non avrei mai più visto le persone che amavo mi strappava il cuore. Dentro di me, però, sentivo anche tanta serenità, il Signore mi aveva insegnato a nascere ogni giorno e a morire ogni sera. Mi fidavo ciecamente di quei medici». «Insomma, mi dicevo, mi avevano accompagnato per tutto quel tempo, impossibile che mi abbandonassero adesso».
Non ci sono addii strazianti in questa storia. «Ricordo solo abbracci pieni di calore. A mio marito dissi che prima doveva pensare ai figli e solo dopo a risposarsi. Lui mi strinse e mi ripeté quella frase, cioè che mi avrebbe sposata sempre, anche senza gambe».
L'intervento in sala operatoria dura quattro interminabili ore: «Io ricordo solo il pianto e la disperazione dei medici che imprecavano per quella rete nella pancia che ostacolava tutto. Ho sentito le forze abbandonarmi, mi sono sentita spegnere come una candela e, dopo, il silenzio. Non c'era modo e tempo per pensare».
Sara, pur con qualche sofferenza, viene alla luce e poco dopo rinasce anche Maria: «Ricordo solo di aver cominciato a sentire alcune voci. Seppi più tardi che sono tornata in vita alla settima iniezione. Ho sentito dentro una gioia che faceva scoppiare il cuore: ho sentito dentro che avevo ragione io. Ecco perché l'ho chiamata Sara», dice Maria. «Sara, come la moglie di Abramo che si affidò dall'inizio. E non importa se siamo in cinque e si fa fatica con poco lavoro: la speranza dà forza e non ferma la voglia di fare».
Fonte: L'Arena 24.12.2013