di Roberto de Mattei su Il Giornale del 3 aprile 2010 ) Esiste una particolare specie di vespa (Ampulex compressa) che usa un cocktail di veleni per manipolare il comportamento della sua preda, uno scarafaggio. La vespa femmina paralizza lo scarafaggio senza ucciderlo, poi lo trasporta nel suo nido e deposita le sue uova nel ventre della preda, in modo che i neonati possano nutrirsi del corpo vivente dello scarafaggio. Mediante due punture consecutive, separate da un intervallo temporale molto preciso e in due parti diverse del sistema nervoso dello scarafaggio, la vespa riesce letteralmente a «guidare» nel suo nido già predisposto la preda trasformata in uno «zombie».
La prima puntura nel torace provoca una paralisi momentanea delle zampe anteriori, che dura qualche minuto, bloccando alcuni comportamenti ma non altri. La seconda puntura, parecchi minuti più tardi, è direttamente sul capo. La vespa dunque non deve trascinare fisicamente lo scarafaggio nel suo rifugio, perché può manipolare le antenne della preda, o letteralmente cavalcarla, dirigendola come se fosse un cane al guinzaglio o un cavallo alla briglia. Il risultato è che la vespa può afferrare una delle antenne dello scarafaggio e farlo andare fino al luogo adatto all’ovodeposizione. Lo scarafaggio segue la vespa docilmente come un cane al guinzaglio. Pochi giorni più tardi, lo scarafaggio, immobilizzato, funge da fonte di cibo fresco per la prole della vespa.
Questa macabra ma illuminante storia entomologica è presentata dai cognitivisti Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini nel libro, appena stampato da Feltrinelli, Gli errori di Darwin, come uno degli argomenti più efficaci per confutare l’evoluzionismo darwiniano secondo cui gli organismi viventi traggono la loro origine da una «casuale» selezione naturale.
Nel simile comportamento delle vespe, infatti, molte cose avrebbero potuto andare in altro modo. «La natura biochimica del cocktail di veleni - osservano gli autori - avrebbe potuto essere molto diversa, risultando o del tutto inefficace o, per eccesso, letale per la preda. La scelta del momento e dei punti in cui pungere avrebbe potuto essere sbagliata in molti modi, per esempio consentendo allo scarafaggio di riprendersi e di uccidere la vespa, di lui molto più piccola.
La vespa avrebbe potuto non “capire” che la preda può essere guidata al guinzaglio, dopo le due magistrali punture, e avrebbe potuto tentare di trascinare faticosamente il corpo piuttosto voluminoso nel suo nido. E via di questo passo. I modi in cui questa sequenza comportamentale avrebbe potuto uscire di strada sono in effetti innumerevoli. Neanche il più convinto fra gli adattamentisti neo-darwinisti suppone che gli antenati della vespa abbiano tentato alla cieca tutti i tipi di alternative e che siano state progressivamente selezionate soluzioni sempre più valide, fino a che non è stata trovata la soluzione ottimale, che è stata conservata e codificata nei geni» (p. 108).
Per quanto lungo possa essere il tempo in cui le vespe sono in circolazione, non è possibile immaginare l’emergere «a casaccio» di un comportamento così complesso, sequenziale, rigidamente pre-programmato. «E allora? Nessuno lo sa, al momento. Simili casi di programmi comportamentali innati complessi (raffinate ragnatele, procacciamento del cibo nelle api come abbiamo visto prima, e molti altri) non possono essere spiegati direttamente mediante fattori ottimizzanti fisico-chimici o geometrici. Ma non possono essere spiegati nemmeno dall’adattamento gradualistico. È corretto ammettere che, anche se siamo disposti a scommettere che un giorno si troverà una spiegazione naturalistica, per il momento non ne abbiamo nessuna. E se insistiamo che la selezione naturale è l’unica via da esplorare, non ne avremo mai una» (p. 109).
Per i darwinisti tutto ciò che esiste è «imperfetto», perché in continua evoluzione. La selezione naturale non «ottimizza» mai, ma si limita a trovare soluzioni localmente soddisfacenti. Fodor e Piattelli Palmarini, invece, dimostrano l’esistenza di casi di soluzioni ottimali che smentiscono la tesi darwiniana. «Quando morfologie specifiche simili si osservano nelle nebulose a spirale, nella disposizione geometrica di goccioline magnetizzate sulla superficie di un liquido, nelle conchiglie marine, nell’alternarsi delle foglie sui fusti delle piante e nella disposizione dei semi in un girasole - scrivono i nostri due autori - è molto improbabile che ne sia responsabile la selezione naturale» (pp. 88-89).
Fodor e Piattelli Palmarini non vogliono avere niente a che fare con il «disegno intelligente», ma il loro libro va letto accanto a quello di Michael J. Behe, La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’evoluzione (Alfa & Omega, 2007). Professore di biologia alla Lehigh University in Pennsylvania, Behe ha dimostrato come l’evoluzionismo non è in grado di spiegare strutture e processi «irriducibilmente complessi» come quelli esemplificati dalla biochimica degli organismi viventi. La complessità biochimica di un microbo non è inferiore a quella di una pianta o di un animale.
L’evoluzionismo suppone che le specie viventi siano state precedute da strutture imperfette e incompiute, progressivamente trasformatesi nelle attuali. Tanto i reperti paleontologi quanto le specie viventi provano invece l’esistenza di specie tra loro distinte con strutture in sé compiute. Nella scala dei viventi e nella gerarchia delle specie esistono evidentemente gradi di perfezione diversi. Ogni specie tuttavia può definirsi perfetta nella sua struttura e nessun organismo in natura mostra di essere in evoluzione verso una complessità maggiore. Tutti gli animali a noi noti, a cominciare dall’uomo, sono «produzioni high tech», ha osservato il biologo Pierre Rabischong (in Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, Cantagalli, 2009, pp. 177-194, a mia cura).
Dove si deve cercare la soluzione? Esistono «regole», «norme», «vincoli alla stabilità» che Peter Timothy Saunders ha chiamato «leggi della forma» (An Introduction to Catastrophe Theory, Cambridge, 1980), riecheggiando quanto già Sir D’Arcy Wentworth Thompson sosteneva nel 1917 nel suo Growth and Form. Fodor e Palmarini ricordano anche la successione del matematico pisano Fibonacci, secondo cui ogni termine è uguale alla somma dei due precedenti. È la nota «sezione aurea» o «proporzione divina», che si riscontra nelle leggi armoniche della fisica, della chimica, della biologia, della mineralogia e che disturba non poco i teorici dell’evoluzionismo.
Tutto ciò che è vivente ha una sua struttura biologica e si presenta come espressione di una «forma» che va oltre le sue componenti materiali. La forma è la perfezione prima di quanto esiste, ciò che determina la differenza di un essere dall’altro, determinandone la sua originalità. La forma rinvia alla specie, che prima di essere l’unità di base della classificazione tassonomica degli esseri viventi, è una categoria logica che ha un fondamento nelle cose. Nella filosofia tradizionale la specie di ogni cosa deriva da quella forma che la rende una cosa concreta, con un’essenza specifica. Nella riflessione filosofica, infatti, è il principio che determina l’essenza e la struttura dell’essere come tale (Aristotele, Fisica, III, 2, 194 b 26; Metafisica, V, 2, 1013 b 23).
L’evoluzionismo, come già osservava Etienne Gilson, è un ibrido connubio fra una teoria filosofica e una teoria scientifica, che è impossibile dissociare. La posizione di Fodor e Piattelli Palmarini capovolge quella dei cosiddetti «teo-evoluzionisti». Questi ultimi rifiutano la concezione filosofica di Darwin, ma ne salvano la teoria scientifica, cercando di conciliarla con il «creazionismo». Fodor e Piattelli Palmarini mettono in discussione l’ipotesi scientifica della selezione naturale, ma riaffermano la loro fede filosofica nell’ateismo evoluzionista. Per criticare Darwin, l’Accademia esige infatti una professione pubblica di «anticreazionismo». Gli autori del saggio che abbiamo presentato ribadiscono di voler essere iscritti all’albo degli «umanisti ufficialmente laici». «In effetti - scrivono - entrambi ci proclamiamo atei, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irriducibilmente atei» (p. 11). È questo il prezzo pagato per ammettere candidamente che «non sappiamo molto bene come funzioni l’evoluzione» (p. 12).
C’è bisogno di proclamarsi «cattolici, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irrimediabilmente cattolici», per spiegare che la macroevoluzione non funziona semplicemente perché è una teoria, filosofica e scientifica, falsa e infondata?