Salvare la Messa. Ma quale?
di Cristiano Lugli
Accade a Reggio Emilia che il vescovo Massimo Camisasca faccia pubblicare sul giornale della Diocesi, La Libertà, una lettera pastorale a proposito della liturgia. Spinto, con tutta probabilità, da un fedele locale che ha scritto diverse mail alla curia mettendo in copia anche la Congregazione per il Culto Divino, Camisasca ha deciso di intervenire nel merito di alcuni abusi che si presenterebbero ogni domenica in diocesi durante la messa montiniana.
Sono a diretta conoscenza delle pressioni fatte da questo fedele, ma può farlo anche il lettore leggendo l’editoriale apparso pochi giorni fa sul sito de La Nuova Bussola Quotidiana, dove è citato espressamente questo particolare che, secondo l’editorialista, potrebbe aver spinto il vescovo ciellino a intervenire pubblicamente.
Ma veniamo ai fatti. L’articolo de La Nuova Bussola porta un titolo davvero interessante: «Finalmente un vescovo tuona contro le messe sacrileghe». Il nocciolo della questione sta nell’elogio al vescovo reggiano per aver detto due o tre ovvietà: per esempio, che il canone della nuova Messa non può essere detto dai laici perché renderebbe invalido il rito. Detto fatto: Camisasca santo subito. Dimenticate le veglie dei “cristiani LGBT” guidate dall’Eccellenza. Dimenticato il cerchiobottismo nei confronti del Gay Pride che si tenne a Reggio-Emilia. Dimenticate le sue visite a Casa Cervi. Dimenticata già, seppur recentissima, la presentazione del suo ultimo libro insieme a Romano Prodi.
Ma tant’è: il problema, qui, non è la cosa pur giusta – comunque secondo la sua visione modernista – che può aver detto Camisasca, quanto l’atteggiamento di tutto quell’ambiente conservatore – a cui il vescovo reggiano, in un certo senso, appartiene – che fa di tutto affinché tutti guardino il dito e non la luna.
Coloro i quali gridano, con notevole isteria, agli abusi della nuova messa, dovrebbero invece scandalizzarsi anche e soprattutto per la messa nuova in se stessa. Tutti quelli che si scandalizzano per l’annunciata riforma bergogliana, per il Padre Nostro cambiato e per la batteria di troppo in chiesa, sono inconsapevolmente figli di una riforma già avvenuta compiutamente e che ha posto tutti fuori dal recinto della liturgia cattolica di sempre.
Il problema principale, dunque, non è uno dei tanti abusi interni alla messa denunciati da una lettera pastorale che, proprio in quanto pastorale, non sarà comunque ascoltata da nessuno, ma la liturgia nuova, che è un abuso in se stessa, un ignobile e voluto avvicinamento al “credo” protestante.
L’ambiente conservatore che vuole “salvare la Messa” (nuova), dovrebbe ricordare che quest’ultima fu voluta da Annibale Bugnini, il più grande riformatore filo-protestante dell’ultimo secolo, per rispondere al «desiderio di scartare ogni pietra che potesse costituire anche solo l’ombra di un rischio di inciampo o di dispiacere per i fratelli separati» («La Documentation Catholique», n. 1445 (1965), col. 604.). A proposito della riforma liturgica di Paolo VI, Bugnini affermò anche, senza indugio, in una dichiarazione rilasciata alla stampa nel 1967, che si tratta «in certi punti, di una vera nuova creazione, dato che l’immagine della liturgia data dal Concilio Vaticano II è completamente differente da quella che la Chiesa cattolica ha avuto finora».
L’epilogo della palese protestantizzazione del nuovo rito lo si vide infatti con la famosa foto in cui Paolo VI, gaudente, si fece immortalare con i pastori protestanti che parteciparono ai lavori preparatori della nuova messa, per festeggiare la missione compiuta e voluta da prima del Concilio e alla quale Bugnini lavorava sin dal lontano 1944, quando chiese a Monsignor Arrigo Pintonello, Ordinario Militare per l’Italia, di tradurre numerosi testi della liturgia protestante tedesca.
Il movimento per il rinnovamento liturgico, però, avrebbe avuto poi bisogno del Concilio Ecumenico Vaticano II per giungere a compimento nella riforma di Paolo VI. Ecco dunque ripresentarsi il solito problema: il conservatorismo è molto peggio del progressismo. Pretendere di salvare la messa nuova dagli abusi è come pretendere di sconfiggere un tumore prendendo una tachipirina 500 senza tentare di estirpare il male alla radice.
Ma il conservatore è anche quello che, alla fine, forse rendendosi conto di essere troppo poco a destra, cerca di tirare la talare di chi è più a destra per portarlo verso il suo centrismo tiepido. Prendiamo ad esempio uno stralcio dell’articolo sopracitato della Nuova Bussola dove l’articolista, commentando le parole di chiusura della lettera di Camisasca, così scrive: «Parole certamente gravi, che arrivano a conclusione di un documento denso di riferimenti dottrinali sul significato, il valore e la sacralità della santa messa. Come ad esempio la Costituzione conciliare Sacrosantum Concilium della quale molti preti hanno letto probabilmente soltanto il cosiddetto spirito e non la sua lettera dato che in essa non vi si trova nessuna concessione alle arbitrarietà e agli abusi a cui poi nei successivi 50 anni abbiamo assistito e che – tanto per dirne una – venne firmata addirittura da monsignor Lefevbre».
Senza voler giudicare l’intenzione con cui lo si è voluto citare, bisogna dire però che tirare in ballo monsignor Marcel Lefebvre per via dei documenti firmati al Concilio senza precisare il contesto storico, banalizzando la faccenda in due righe senza tener conto di tutta la sua storia e del suo operato risulta, a voler essere clementi nel giudizio, quantomeno fuorviante.
Ma andiamo per gradi. Se, per assurdo, si volesse salvare la lettera della Sacrosanctum Concilium, bisognerebbe dire comunque che in tutto il Concilio e in tutti i suoi documenti, in particolare quelli che hanno avuto a che fare con la liturgia, si era già insidiato e preparato il veleno progressista e riformista dell’ambiguità, delle cose dette e non dette, fino ad arrivare ad alcuni documenti in cui la dottrina cattolica è stata, in maniera lampante ed evidente, irrimediabilmente stravolta.
In secondo luogo va detto che la disputatio sulle firme di monsignor Lefebvre ai documenti del Concilio è stata ampiamente spiegata nella biografia che monsignor Bernard Tissier de Mallerais ha dedicato al fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Proprio nei capitoli dedicati al Concilio e al ruolo di Lefebvre durante le sessioni, monsignor Tissier spiega bene quanto le sottoscrizioni ai documenti e agli schemi del Concilio fossero una pro-forma a cui tutti dovevano attenersi, e che non rappresentava per forza un’accettazione del documento in sé. Il Papa ci teneva al fatto che, una volta promulgati, venissero firmati anche da chi aveva eventualmente votato contro ad essi (come nel caso di monsignor Lefebvre che votò contro alla Gaudium et Spes e a Dignitatis Humanæ).
Questo semplicemente per dire che nonostante la firma posta alla Sacrosanctum Concilium – così come ad altri documenti – il vescovo francese iniziò subito a intravedere il germe dell’ambiguità modernista che ha portato alla riforma di Paolo VI, fino ad arrivare all’accusa del Concilio.
In una conferenza del 1976, ritornando sul Vaticano II, il fondatore della Fraternità San Pio X disse: «Non credo che duemilacinquecento vescovi si siano sbagliati. Evidentemente, penso che molti non si siano resi conto di quello che stava succedendo. Io stesso ho sottoscritto molti schemi del concilio, ma direi sotto la pressione morale del santo padre. Se il santo padre firma, mi sento moralmente obbligato a firmare. Ma la cosa fu fatta un po’ controvoglia»
È risaputo che, sin dalle prime battute del Concilio, Lefebvre si trovò insieme a molti altri, poi smarritisi per strada (tranne il gigante di Campos, monsignor De Castro Mayer), a doverne combattere il moto rivoluzionario che via via si manifestava, rompendo l’argine di quel timore reverenziale verso il Papa che in vescovi nati e formati ben prima della primavera sessantottina della Chiesa doveva rappresentare uno scoglio pressoché invalicabile.
Monsignor Lefebvre ebbe la lucidità e il coraggio per accorgersene quasi subito, fino a compiere la sua opera più grande: ordinare a Êcone i quattro vescovi per garantire la continuità della sua opposizione alla Roma modernista uscita dal Vaticano II. Tirarlo per la talare sulla firma apposta ed eventuali documenti del Concilio è come minimo capzioso se non si tengono in considerazione due elementi che vanno posti nel loro contesto storico e in successione cronologica: il primo è l’evento conciliare con la sua pressione sui vescovi che vi hanno partecipato, il secondo è l’enorme opera del vescovo francese per salvare il sacerdozio e la vera Messa, che segnò tutta la sua vita dopo il Concilio. Ricordare il primo e dimenticare il secondo è un pessimo servizio alla storia e, ancor di più, alla verità. Il fatto, poi, che col passare degli anni l’atteggiamento di Monsignor Lefebvre si rese necessariamente sempre più deciso, duro e intransigente dipende dal fatto che gli errori introdotti dai testi conciliari si facevano sempre più manifesti e devastanti.
Ecco perché i “tuoni” pastorali di Camisasca, a confronto dell’opera del vescovo francese per salvare il Sacrificio della Santa Messa, sono i “tuoni” più silenziosi e inutili che si potessero sentire.
Fonte: Riscossa Cristiana