di don Pierpaolo Maria Petrucci
Nel mondo di oggi le dottrine di Rousseau secondo cui l’uomo sarebbe di natura buono, sono divenute luoghi comuni. Una conseguenza della negazione del peccato originale è di non credere più alla necessità di far penitenza per i propri peccati e ottenere così il perdono che Dio ci offre grazie al sacrificio redentore di Gesù.
All’uomo decaduto e redento il pensiero moderno oppone la dignità assoluta dell’individuo ed i suoi diritti fondati precisamente su una natura integra, immacolata, quasi divina. Il dramma è che questi errori sono penetrati nel seno stesso della Chiesa cattolica.
Nell’ultimo concilio il decreto Dignitatis Humanae attribuisce all’uomo il “diritto alla libertà religiosa”. Secondo il suo insegnamento una qualunque setta ha il diritto di non essere impedita dalla pubblica autorità ad esercitare anche pubblicamente il proprio culto e a diffondere i propri errori. Si attribuiscono così all’uomo dei diritti assoluti, indipendenti da Dio, dalla verità oggettiva, dalla religione rivelata. In maniera più sconcertante la costituzione Gaudium et spes afferma che: “il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione”.[1]
Dignità dell’uomo quindi che comporta dei diritti indipendenti dalla verità oggettive; dignità fondata sulla natura, nella quale vi è un germe divino, indipendentemente dalla grazia santificante. Questo neo-umanesimo di stampo naturalista ha fatto sparire dalla predicazione verità importanti come appunto la necessità della penitenza che implica il riconoscimento per l’uomo della sua condizione di peccatore, la sua dipendenza verso Dio e il bene supremo da raggiungere, a prezzo di qualunque sacrificio: la salvezza dell’anima, evitando così di perdersi eternamente nell’inferno.
E’ molto importante quindi, soprattutto oggi, meditare la dottrina cattolica sulla penitenza, in particolare nel periodo quaresimale, per potere essere sempre più in sintonia con questo tempo liturgico, ricco di grazie e prepararci santamente alla festa di Pasqua.
La virtù di penitenza
La penitenza di definisce come la disposizione a riparare le offese fatte a Dio. Essa fa parte della virtù di giustizia poiché ogni peccato lede il diritto di Dio ad essere onorato. La sua gravità è in un certo qual modo infinita, come dice S. Tommaso, poiché si misura dalla parte di colui che è offeso: Dio l’essere infinito. Per ripararlo Gesù offrì al Padre il suo sacrificio sulla Croce così da ripararlo in maniera adeguata e sovrabbondante: “la soddisfazione di valore infinito data da Gesù Cristo, non toglie all’uomo la necessità della penitenza ma lo mette in condizione di offrire una riparazione gradita a Dio”.[2] Con la penitenza possiamo così riparare il debito dei nostri peccati ed evitare di espiarli nella vita futura.
Tanti santi furono grandi penitenti, offerti a Dio per riparare non soltanto i propri peccati ma, come Gesù, anche quelli degli altri uomini. Ottennero così la conversione di peccatori, preservando persino l’umanità da castighi di cui si rende colpevole per le pubbliche offese fatte a Dio. Pensiamo per esempio a S. Francesco che passava settimane intere in preghiera e penitenza alla Verna, dove si può ancora vedere il suo “letto” di pietra.
I tre veggenti di Fatima, in seguito alle richieste della Madonna, accettarono di offrirsi come vittime di espiazione, per salvare le anime dall’inferno che la Vergine Maria aveva mostrato loro. Ancora più vicino nel tempo ricordiamo Padre Pio, intimamente unito alle sofferenze del Salvatore crocifisso, per ricordare al mondo e alla Chiesa, nel periodo di crisi che sta vivendo, che la Messa non è un banchetto fraterno, ma lo stesso sacrificio della croce reso presente sull’altare, in maniera incruenta, per applicarci le grazie che Gesù ha meritato per noi.
Certo molto spesso le penitenze dei santi sono più da ammirare che da imitare, ma ogni cristiano deve praticare questa virtù. Prima di tutto nel sacramento di penitenza, confessando a Dio umilmente le proprie colpe e sottomettendosi di buon cuore alla penitenza che il sacerdote vorrà imporgli. Tale penitenza, molto spesso non è proporzionata alla gravità delle colpe accusate. Per questo è importante completarla con altre preghiere e sacrifici volontari, sopratutto accettando generosamente le contrarietà della vita quotidiana, che Dio permette proprio per darci l’occasione di riparare i nostri peccati in questa vita e evitarci la purificazione del Purgatorio dove, secondo S. Tommaso d’Acquino, la più piccola sofferenza è più grande delle più grande sofferenza della terra.
La penitenza poi ci preserva anche dai peccati futuri. Il peccato originale ha ferito la nostra natura e, con la grazia santificante, Adamo ha perso per noi anche i doni preternaturali che doveva trasmetterci con la natura umana, in particolare il dono di integrità che garantiva la sottomissione delle facoltà sensibili alla ragione. Anche dopo il Battesimo, rimane in noi la triplice concupiscenza che si manifesta con la rivolta della nostra parte sensibile alla ragione e alla legge di Dio.
Per restaurare l’ordine primitivo distrutto dal peccato e non lasciarci tiranneggiare dal nostro corpo e dalle sue passioni, la penitenza e la mortificazione dei sensi divengono indispensabili. L’insegnamento di Gesù su questo punto è molto chiaro: “Se non fate penitenza perirete tutti”[3], o ancora: “Se qualcuno vuol essere mio discepolo rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”[4]. Allo stesso modo S. Paolo facendo eco alla parola del Signore diceva: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze.”[5]
Come diceva Giobbe: “La vita dell’uomo è una battagli sulla terra”.[6] Questa lotta consiste nell’instaurare l’ordine nella propria anima, per poi restaurarlo nella famiglia e ricostruire una società cristiana. E’ certo che l’essenziale della vita cristiana si riassume nella carità: l’amore di Dio e del prossimo. Ma non si può praticare veramente questa virtù senza una ascesi, senza la penitenza e la mortificazione. In assenza di ciò si rischia di ridurre la religione ad un affare di sentimento, che non ha niente a che vedere con l’insegnamento virile del cristianesimo.
Non vi è vero amore senza sacrificio e Gesù ce lo ha insegnato non soltanto con la dottrina ma soprattutto con il suo esempio. Quando poi si unisce alla preghiera la penitenza, essa diviene efficacissima nell’ottenere da Dio ciò che domandiamo. Certe grazie, come appare dall’insegnamento del Vangelo, ci sono accordate unicamente a questa condizione.[7]
Ai nostri tempi la disciplina della Chiesa durante la Quaresima si è molto attenuata. Oltre all’astinenza delle carni il venerdì, ci sono unicamente due giorni di digiuno obbligatori per coloro che hanno compiuto i 18 anni fino ai 60: il mercoledì delle ceneri ed il Venerdì Santo. E’ consigliabile comunque, conservare la disciplina tradizionale che consiste nel digiunare tutti i venerdì di Quaresima e aggiungere qualche pratica di mortificazione personale: piccoli sacrifici offerti al Signore che ci dispongono ad accettare generosamente quelli più grandi che ci chiederà nelle circostanze della vita.
Entriamo quindi generosamente nella quaresima, meditando l’esempio di Nostro Signore che, come ci ricorda l’Imitazione di Cristo, ci traccia la strada camminando davanti a noi.
[1] Gaudium et spes n 3
[2] Dizionario di Teologia Morale, Palazzini, voce Penitenza Ed. Studium Roma 1968
[3] Lc 13,3
[4] Mc 8,34
[5] Gal. 5,24
[6] Giob. 7,1
[7] Mt 17,21