In seguito all’ ormai famoso discorso del Santo Padre del 22 dicembre 2005, e soprattutto dopo il libro di Mons. Gherardini Concilio Vaticano II, un discorso da fare si è aperto un dibattito molto interessante sul valore magisteriale dei testi del Concilio.
Più teologi e di valore hanno affrontato il problema anche d’un modo serio e approfondito, per rendersi conto basta leggere i numerosi libri o articoli usciti sull’argomento da ormai tre anni. E qui si parla solo di teologi che hanno avuto il coraggio di uscire della volgata e di esaminare con realismo la continuità dei testi conciliari con il magistero perenne della Chiesa.
Ci limitiamo ad una sola constatazione: tutti senza eccezione danno una risposta diversa sul suo valore magisteriale. Per chi è magistero supremo, per altri certi testi hanno solo un valore di magistero di predicazione, o ancora un magistero difficilmente definibile visto il carattere pastorale del Concilio, si potrebbe parlare d’un magistero di pastoralità (ma questa categoria non entra nei manuali di teologia visto che la Chiesa ha mai contemplato questa possibilità), e c’è ancora chi è propenso a considerare l’insieme come non magistero.
Come mai questa difficoltà a non trovare almeno un punto d’accordo sul valore del Concilio?
Vi proponiamo un testo del Padre Roger-Thomas Calmel (1914-1974), scritto all’inizio dei anni settanta, non per risolvere il problema ma mostrare da dove viene la difficoltà:
“…c’è solo da aprire il Vaticano II per constatare che i Padri hanno decisamente rotto con la Tradizione dal linguaggio netto e senza equivoci. Non ignoro i pochi testi vigorosamente formali, come la nota previa, che rimette in ordine certi sviluppi deboli e perniciosi della Lumen Gentium sui poteri episcopali. Resta nondimeno anzitutto il fatto che la stessa lodevole nota previa non si dà come definizione di Fede e non comporta nessun anatema, e poi ed anzitutto, che abitualmente il modo di esprimersi proprio del Vaticano II è impreciso, verboso e anche sfuggente. Qual è, ad esempio, dopo il XXI Concilio, la dottrina politica e sociale della Chiesa cattolica? Tanto il Sillabo e le Encicliche da Leone XIII a Pio XII ce la espongono chiaramente, tanto la Gaudium et Spes e la Dignitatis Humanae ci lasciano nel vago e nell’incertezza.
Perché meravigliarcene d’altronde? Si sa da un pezzo che sono testi di compromesso. Si sa anche che una frazione modernista avrebbe voluto imporre una dottrina eretica. Impedita di raggiungere questo scopo, è riuscita tuttavia a fare approvare dei testi informali. Questi testi presentono per il modernismo il doppio vantaggio di non potere essere accusati di affermazioni apertamente eretiche e nondimeno di poter essere interpretati in un senso opposto alla Fede.
Ci attarderemo noi a combattere direttamente questi testi? Vi abbiamo pensato. Ma la difficoltà è che tali testi non offrono appigli all’argomentazione: sono troppo vaghi. Mentre vi sforzate di mettere alle strette una formula che vi sembra inquietante, ecco che nella stessa pagina ne trovate un’altra irreprensibile. Mentre cercate di puntellare la vostra predicazione o il vostro insegnamento con un testo conciliare solido, impossibile da distorcere, adatto a trasmettere al vostro uditorio il contenuto tradizionale della Fede e della morale, vi accorgete ben presto che il testo da voi scelto, ad esempio sulla liturgia o sul dovere della società verso la vera Religione, è insidiosamente indebolito da un secondo testo, che, in realtà, svigorisce il primo mentre aveva l’aria di completarlo. I decreti si succedono alle costituzioni senza offrire alla mente, salvo eccezioni rarissime, una presa sufficiente”. (Breve Apologia della Chiesa di sempre, pp. 35-36, ed. Ichthys)