Il Canonico Maurice Tornay
UN MARTIRE DEL XX SECOLO
L’anno 2010 ha segnato il centesimo anniversario della nascita del Canonico Maurice Tornay (1910-1949), morto martire in Tibet. È l'occasione per ricordarci, attraverso la sua vita, come le vocazioni possano sbocciare all'interno di una famiglia cristiana.
Maurice Tornay nasce il 31 agosto 1910 nel villaggio di La Rosière, della parrocchia e del comune di Orsières, in Vallese, a 1200 metri d'altitudine. La famiglia Tornay, come tutti gli abitanti dei villaggi di montagna di quest'epoca, conduce una vita dura e povera, dove il lavoro è incessante. Vive dei suoi piccoli appezzamenti di terreno, di un alpeggio, il Crêtes, e di una vigna a Fully.
Il padre, Jean Tournay, è un cristiano di solide convinzioni. La madre, Faustine Rossier, “era una persona molto viva di spirito, forte nelle prove, di una tempra invincibile, che sapeva attribuire alle cose, con una chiaroveggenza notevole, il loro vero grado di importanza”. Ha una grandissima bontà, soprattutto verso i poveri che ama soccorrere, ed insegna ai suoi bambini la pratica della carità: “La mamma non poteva veder soffrire gli altri senza soffrire ella stessa”, ricorda suo figlio Louis. Maurice la venera come una santa.
Preoccupata innanzitutto dell'anima dei suoi bambini, questa madre ammirabile fu senza dubbio l'ispiratrice delle due vocazioni religiose che fiorirono nel suo focolare: quella di Maurice e quella di Anna, che prese, nel 1928, l'abito delle Suore della Carità a La Roche-sur-Foron, in Savoia.
Maurice è il settimo di otto figli, tre maschi e cinque femmine. Da quando ne hanno la forza, ciascuno si rende utile in casa, nei campi, nella cura del bestiame.
Il giovane Maurice ha delle grandi qualità e dei grandi difetti. È un bambino allo stesso tempo sbarazzino e serio, integro, tenace: vuole portare a termine ogni cosa. Possiede una volontà straordinaria, e non ha paura di niente e di nessuno.
“Dalla sua infanzia, Maurice Tornay dimostrava uno spirito piuttosto meditativo e portato all'osservazione. Rimaneva per lungo tempo immobile nello stesso posto ad osservare tutto quello che vedeva e sentiva. Il suo carattere si mostrava spontaneo, pieno di volontà, ma irascibile e violento allorché lo si distraeva dai suoi giochi o se qualcuno gli rivolgeva una parola agro-dolce. Pronto alla replica, esprimeva la sua opinione senza giri di parole, anche a rischio di ferire.”[1]
Sua sorella Anna ricorda: “Durante le vacanze, si ritirava abitualmente solo, in disparte. Io ero sua intima, ma mi ha detto che rifiutava la mia compagnia perché in quei momenti ero noiosa. Si recava solitamente in un luogo tranquillo nella foresta. Un giorno che io mi ci recai, lo trovai in meditazione. È al suo ritorno da queste meditazioni che mi confidava, talvolta, le risoluzioni che aveva prese. Mi disse una volta di aver preso la risoluzione di confessarsi regolarmente tutte le settimane. Noi eravamo al Crêtes ed ogni sabato scendeva per essere a Orsières la domenica mattina, ed andava a confessarsi.”[2]
Studente al collegio dell'abazia di Saint Maurice
Nel 1925, Maurice Tournay ha quindici anni ed entra come studente al collegio dell'abazia di Saint Maurice. Lì sarà alloggiato durante sei anni, fino alla maturità. Trovarsi nel pensionato per nove mesi all'anno, che differenza con la vita che ha condotto fin qui!
Ha l'affanno della perfezione, e vuole trascinare gli altri a seguirlo, perché è una guida che esercita un ascendente sui suoi compagni. Un di questi ci dà questa testimonianza: “Ci trascinava al bene. Ci portava, una decina di noi, durante i tempi liberi, nel pomeriggio, a fare una piccola meditazione in cappella.”
Un tratto che colpisce in lui è l'aspirazione costante alla santità, già dalla sua infanzia e dalla sua vita di studente. Il suo grande desiderio è diventare santo, per quello vuole donare la sua vita, donarsi senza riserve. Non sa ancora dove né come, ma sa che è qui per prepararvisi. Per lui, il percorso verso la perfezione non sarà senza lotte né dolori, perché ha un temperamento impetuoso e collerico. Poco a poco, con un lavoro paziente ed incessante su se stesso, metterà ordine nella sua natura tumultuosa e nella sua inclinazione a dominare gli altri. È con la rinuncia che vincerà se stesso. Un testimone nota: “Era molto duro con se stesso, voleva dominarsi, si mortificava molto”.
Per le sue qualità, i tratti dominanti del suo ritratto morale sono la franchezza, la purezza, la pietà. Ha una pietà fervente e fa parte della Congregazione dei Figli di Maria.
Dotato di una buona intelligenza, eccelle negli studi. Nel teatro del collegio, sostiene dei ruoli importanti e delicati. Anima sensibilissima, ama la poesia e la bella musica. In tutta la sua corrispondenza di collegiale, mostra un grande affetto per la sua famiglia, una riconoscenza commossa per tutto il bene che gli prodigava, un attaccamento tenero e tenace ai luoghi della sua infanzia, uno sforzo continuo per accettare tutto il distacco voluto da Dio. Lo preoccupa sempre il pensiero della vanità delle cose terrene, del tempo che fugge, della morte, della sola gioia verso la quale dobbiamo tendere: è il ritornello che ripete costantemente nelle sue lettere a quelli che ama. Durante questi anni, si rafforza in lui il pensiero della vocazione, che considerava fin dalla sua fanciullezza.
Religioso del Gran San Bernardo
Nel 1931, entra come novizio all'ospizio del Gran San Bernardo. Nella sua lettera di domanda al superiore della congregazione, dichiara la sua intenzione: “Votarmi completamente al servizio delle anime al fine di condurle a Dio, e salvare me stesso”. Il 25 Agosto 1931, riceve l'abito dei Canonici Regolari del Gran San Bernardo. Questa vita religiosa esigente, che richiede molto sacrificio, lo riempie di gioia. Poco dopo, in ottobre, scrive alla sua famiglia: “Prima di entrare, mi dicevo: 'Sarai un po' prigioniero, tra le mura in cima ad una montagna'; e non sono mai stato così libero. Faccio quello che voglio, perché la volontà di Dio mi è mostrata in ogni momento, e ciò che voglio fare è questa sola volontà”.
Il suo Padre Maestro dei novizi, il futuro vescovo di Sion, Mons. Nestor Adam, racconta: “È venuto a trovarmi un giorno per chiedermi con insistenza: 'Che devo fare per santificarmi?'” Lì c'è tutto Maurice. A sua sorella Anna, quella che è diventata religiosa[3], scrive: “Bisogna sbrigarsi, no? Alla nostra età, altri erano già santi. […] Te lo dico ancora: dobbiamo spicciarci. Più vivo, più sono persuaso che il sacrificio – esso solo – dà un senso ai nostri giorni”. Il cammino di perfezione, si sa, passa per il sacrificio.
L'8 Settembre 1932, pronuncia i voti semplici nella chiesa del Gran San Bernardo. La sua famiglia ha constatato un cambiamento nel suo carattere: diventa più austero, più posato, parla loro con sempre più insistenza delle cose dell'anima e dell'eternità. Testimonia ai suoi un affetto sempre crescente, la sua grande preoccupazione è di unirli a Dio e di renderli più pii.
Mons. Adam dice di lui: “Maurice Tornay aveva un temperamento da lottatore, caratterizzato da una certa violenza e una franchezza un po' spigolosa. Tuttavia devo riconoscere – e lo dico non a causa di questa morte eroica che fu il coronamento di una vita eroica – che Maurice Tornay fu quello che, tra tutti i novizi, si è più trasformato, disciplinato, cresciuto nella perfezione”. “C'era nel Servo di Dio un grandissimo desiderio di perfezione e si è sforzato, durante il noviziato – e ciò in una maniera evidente – di correggere la sua natura spontanea, violenta e tumultuosa. A dispetto del suo carattere indipendente, fu d'una obbedienza ammirevole”.
Il suo pensiero gravita attorno a due immensi progetti: santificarsi e diventare missionario. Tuttavia, ci sono degli ostacoli, ed il primo sono i suoi problemi di salute. Da diversi anni, soffre di dolori allo stomaco. L'indomani della sua professione semplice, scende a Martigny per sottoporsi ad una visita medica: gli viene diagnosticata un'ulcera. Deve seguire una dieta molto severa, e lo farà con grande spirito di mortificazione. Infine, nel Gennaio 1935, deve recarsi in una clinica di Losanna per sottoporsi all'operazione dell'ulcera. Seguirà un lungo soggiorno di sei mesi in clinica a Losanna e poi a Martigny per la sua convalescenza.
Il Missionario
Maurice Tornay aveva già, entrando al Gran San Bernardo, la vocazione missionaria. Quando si appresta a lasciare il mondo, a sua sorella Marie, che cerca di trattenerlo, risponde: “C'è qualcosa di più grandioso che tutte le bellezze della terra”. E aggiunge che Gesù Cristo aveva detto di predicare il Vangelo fino alle estremità della terra. È missionario nel profondo della sua anima.
Ma com'è nato il pensiero di essere missionario in Tibet? Perché questa regione del mondo, la più inaccessibile, la più lontana da tutto quello che conosceva? Ciò che egli si domanda è se la vita religiosa in Europa gli permetterebbe di utilizzare tutte le sue capacità. Santa Teresa del Bambin Gesù si è santificata nel suo carmelo. Per lui, l’unica possibilità, come dirà più tardi in una confidenza a suo fratello Louis, è di partire: “Devo recarmi laggiù, e lavorare con tutte le mie forze, per piacere a Dio, e questo senza mettermi in evidenza, senza che si parli di me, e sfinirmi per puro amore di Dio”. Per meglio santificarsi, vuole spogliarsi di tutto diventando missionario in cima al mondo e nelle condizioni più difficili che ci siano.
L'8 settembre 1935, fa la professione solenne all'ospizio del Gran San Bernardo. In seguito si precipita verso il suo impegno più caro.
Partenza per la Cina, per l'ignoto
Per ottenere rinforzi nella loro missione nello Yunnan cinese, ai confini col Tibet, e su suggerimento del Papa Pio XI, i Padri delle Missioni Estere di Parigi (MEP) si sono rivolti ai canonici del Gran San Bernardo, che sanno adattarsi più facilmente degli altri ad un paese di alta montagna. Due primi canonici erano stati inviati come missionari laggiù due anni prima, e questi chiaramente domandavano rinforzi. Il superiore del San Bernardo accetta di inviar loro un prete ed uno studente di teologia, il fratello Tornay. Quando si guarda tutta l'esistenza di Maurice con una vista d'assieme, si vede in modo chiaro che la Provvidenza l'aveva disposto fino ad ora per arrivare a questo punto. Maurice si sa esaudito, sta per partire per la cima del mondo per mettersi al servizio di popolazioni misere.
La separazione dalle persone ed i luoghi che amava gli fu molto dolorosa. Aveva la nettissima sensazione che questa partenza sarebbe stata definitiva, che mai più avrebbe rivisto la sua patria terrena. Confida a suo fratello Louis: “Mio caro Louis, da laggiù non tornerò più”. Deve prendere congedo dalla sua famiglia; ognuno cerca di trattenerlo. A sua sorella Anna che gli domanda perché partisse di già, risponde: “Bisogna assolutamente, non è mai troppo per il Buon Dio”. Ma dopo questi addii, confesserà: “Ho sentito la sottile stoccata di tutte le sofferenze”.
La vigilia della sua partenza, il 23 Febbraio 1936, incontra a Martigny il canonico Lucien Gabioud, che era stato suo professore di filosofia al Gran San Bernardo, e gli confida in termini molto chiari che se ne andava nelle missioni solamente con il fine di santificarsi con la dedizione, la sofferenza e la mortificazione. Conoscendo il suo temperamento, afferma il suo timore di vedere la vita tranquilla del paese natale precipitarlo nella routine e nella tiepidezza. Guarda in avanti verso la Cina, verso l'ignoto.
Dopo diverse settimane di mare, tre giorni di treno, due giorni di camion e dieci giorni di piste carovaniere, egli ed i suoi due compagni, un padre ed un fratello, arrivano l'8 maggio a Weisi, un grande villaggio cinese a 2300 metri di altitudine; è là che si trova la residenza della missione in questa regione dello Yunnan, al nord-ovest della Cina, alla confine sudorientale del Tibet. “Non pensavo che si potesse andare così lontano”, scrive alla sua famiglia in una delle sue prime lettere d'esilio.
La configurazione del paese (alte montagne, ampli fiumi dai flutti impressionanti che scorrono a più di 5000 metri) pone delle difficoltà particolari. In più, arrivano in un paese in guerra civile, che è già il teatro degli scontri tra nazionalisti e comunisti.
Condizioni molto difficili
Il canonico Tornay si inizia poco a poco alla mentalità ed ai costumi degli indigeni. Studia due lingue molto difficili, il cinese ed il tibetano, completamente diverse l'una dall'altra. Dà prova di una forza e di un coraggio strabilianti, dedicando ogni giorno numerose ore allo studio. In un anno, impara settemila ideogrammi cinesi. Allo stesso tempo, deve continuare i suoi studi di teologia.
Come parlare delle verità spirituali ai pagani che lo circondano? La missione svolge il ruolo di un dispensario per accudire ai corpi: è a partire da lì che si possono toccare i cuori per iniziare l'evangelizzazione. Maurice aveva ricevuto perciò, prima di lasciare la Svizzera, una rudimentale formazione di infermiere e dentista. Si occupa anche dei ragazzi nel probatorio, cioè la piccola scuola fondata dalla missione, per educarli ed istruirli. D'estate, organizza per loro un gran campo di sei settimane.
È ordinato sacerdote ad Hanoi il 24 aprile 1938. Al rientro di settembre, prende l'incarico della direzione del probatorio. Vive tutta la giornata in compagnia di trentanove “selvaggi” ai quali deve insegnare tutto, cominciando a far loro vincere la pigrizia e a lavorare. “Devo insegnar loro tutto, dice, da come lavarsi e vestirsi, a come mettersi in ginocchio e pregare”.
Insegna loro la dottrina cristiana, il latino ed i rudimenti di qualche scienza. Questa scuola assorbe talmente le sue energie che nel 1939, indebolito dal superlavoro, si ammala a due riprese. Lo stesso anno, il probatorio si stabilisce in alcuni nuovi edifici a Houa-Lo-Pa: sarà questa la residenza ufficiale di padre Tornay fino al 1945. Il paese, minato dalla guerra civile, conosce la fame, le epidemie, il saccheggio ed il brigantaggio. Il padre Tornay viene in aiuto come può a tutte le miserie, dimentica se stesso per i bambini ed i bisognosi. In una lettera ai suoi del 24 settembre 1939, scrive: “Sono dimagrito perché qui c'è una gran carestia”.
Dal 1939 al 1945, la guerra mondiale e l'occupazione della Cina da parte dei giapponesi creano un'instabilità ed una insicurezza che costituiscono una grande prova per la missione. Le comunicazioni con la Svizzera sono completamente tagliate per sei anni. La vita dei missionari conosce privazioni e difficoltà incredibili. Mancando il denaro, i canonici devono abbandonare la costruzione che avevano iniziato, e che era già a buon punto, di un ospizio sul colle del Latsa, a costo di immense difficoltà (per salire lassù, a 3800 metri d'altitudine, ci volevano otto ore di marcia spossante). Nel 1944, per far fronte a tutte le loro spese, siccome non ricevono più alcun aiuto dall'Europa, i missionari devono vendere parte del loro vestiario.
Nonostante queste difficoltà, il canonico Tornay compie il suo dovere senza mai scoraggiarsi. Per trovare di che vivere, percorre il paese in cerca di merci. Per difendersi contro gli attacchi eventuali dei briganti, organizza il presidio di Houa-Lo-Pa che diviene il rifugio della popolazione spaventata. Innanzitutto, continua a perseguire la formazione intellettuale e morale dei ragazzi che gli sono affidati; consacra loro tutte le forze che attinge dalla preghiera.
Partenza per il Tibet proibito
La sua vita, a questo punto, è ad una svolta. Il 16 febbraio 1945, il padre Burdin MEP, parroco di Yerkalo, in Tibet, muore di tifo. Il suo predecessore, il padre Nussbaum MEP era stato assassinato dai lama nel 1940. Per succedere al padre Burdin, i superiori designano il canonico Tornay. Yerkalo, dall'altra parte della frontiera sino-tibetana, è la porta di ingresso nel paese dei lama; è l'unica missione cattolica, la sola cristianità che esiste sul territorio del Tibet. È uno di quei luoghi in cui il martirio può coronare la vita di un apostolo.
Il padre Tornay raggiunge la sua residenza nel mese di giugno 1945. Gioisce alla prospettiva di entrare finalmente in questo Tibet tanto desiderato, ma ciò non gli impedisce di avere il cuore spezzato per la chiusura del probatorio a cui aveva tanto lavorato, per via della mancanza di sacerdoti per rimpiazzarlo.
Si tratta di evangelizzare questo paese, dove i cristiani sono ancora rari[4]. La regione è completamente sotto l'influenza del buddismo, un buddismo che non tollera di coesistere con nessun'altra religione.
I capi religiosi, i lama, costituiscono una casta odiosa che detiene tutto il potere religioso e civile; sono, in pratica, i soli capi del paese. Questo potere si appoggia, in più, su di un sistema fondiario che fa di loro i più grandi proprietari terrieri della regione. Il loro capo supremo è il Dalai Lama, reincarnazione del Budda[5]. I lama sono spesso avidi di beni e di potere, fanatici, vendicativi e litigiosi. Sfruttano il popolo verso il quale hanno delle pretese quasi impossibili a soddisfare, lo riducono in servitù e perfino in schiavitù. Lo terrorizzano agendo spesso con violenza per perseguire i loro fini.
Storia della missione di Yerkalo in Tibet
La missione di Yerkalo fu fondata nel 1865 dai padri delle Missioni Estere di Parigi (MEP) e, da allora, la presenza dei missionari si è scontrata con il furore dei lama. Questa postazione avanzata ha avuto il temibile onore di subire diverse persecuzioni sotto le forme più disparate. Nello spazio di ottant'anni, sette missionari hanno pagato con la loro vita il tentativo audace di penetrare nel “paese proibito” tra cui due parroci di Yerkalo: il P. Bourdonnec MEP nel 1905 ed il P. Nussbaum MEP nel 1940. I lama hanno saccheggiato ed incendiato tre volte la residenza. I cristiani sono spesso maltrattati; nel 1905, undici cristiani che rifiutarono di apostatare furono fucilati.
Questa persecuzione ha come ragione profonda l'odio per la religione cattolica. I lama non avranno posa finché la religione “concorrente” non sarà stata estirpata dalla loro terra. Sono inoltre spinti dalla gelosia per i loro privilegi sociali, per paura di perdere il loro prestigio ed il loro potere. Le loro tattiche per espellere i missionari e mantenere intatta l'influenza che esercitano sulla popolazione sono subdole. Povero popolo, che i missionari vogliono sollevare e liberare! È con tali tiranni che il canonico Tornay si confronterà osando valicare la frontiera del Tibet e inducendoli così alla diffidenza.
Yerkalo è un villaggio sito a 2600 metri d'altitudine. Il Padre Tornay descrive la sua nuova postazione: “Il paese è magnifico. Non piove quasi mai, ma soffia sempre un vento molto forte”. La parrocchia conta circa 350 anime meravigliose per la fedeltà alla loro Fede, che si erano rifiutate di apostatare allorché i lama le avevano minacciate di sanzioni. È a loro che va a dedicarsi con tutto il suo zelo. La parrocchia è completamente isolata: il vicino bianco più prossimo, che è il P. Goré MEP, si trova ad otto giorni di marcia sulle montagne.
Parroco di Yerkalo, “consegnato alle bestie”
Due monasteri di lama si trovano nella regione, Karmda e Sogun, veri e propri villaggi incentrati sul loro tempio, il capo del quale è Gun-Akio, che è anche il governatore civile ed il dittatore incontrastato della regione. Il padre Tornay sa molto bene che, secondo l'espressione del P. Goré, essere parroco di Yerkalo significa “essere consegnato alle bestie”. Il vicario apostolico, Mons. Valentin, gli ordina di resistere ad ogni costo e di non cedere che alla violenza. Il canonico Tornay condivide pienamente le vedute del suo superiore gerarchico, allorché, arrivando a Yerkalo, dichiara: “Qui sono e qui resto. Preferisco lasciare la mia carcassa ai lama piuttosto che abbandonare il gregge che il Buon Pastore mi affida”.
Grazie al suo temperamento energico ed al suo coraggio, è fermamente deciso a non arretrare di fronte ad alcun ostacolo. “Voglio sfinirmi al servizio di Dio”, aveva scritto a suo fratello Louis l'anno della sua partenza. È arrivato il momento di metterlo in pratica, perché “il tutto sta nel sempre ricominciare, a qualunque costo, e di non scoraggiarsi mai. Allora, quando si muore, si ha vinto”. Per sradicare la religione cattolica, bisogna, per prima cosa, sopprimerne il ministro: i lama volevano dunque espellere il missionario. Il 3 Novembre 1945, durante le danze rituali, i lama di Karmda stabilirono che il missionario avrebbe dovuto andarsene. Si può leggere nel diario di padre Tornay, alla data del 5 novembre: “Durante le danze dei lama del monastero di Kanda [Karmda], si proclama, innanzi il cielo e la terra, che il missionario dovrà presto andarsene, sotto pena di subire i peggiori castighi che un uomo possa temere; che i cristiani dovranno apostatare; che i loro figli dovranno tutti vestire la tunica dei lama: perché non deve esserci che una sola religione nel paese dei mille dèi”.
“I lama vogliono la vita del Padre e non avranno riposo finché non avranno distrutto il cristianesimo in Tibet”, scrisse il padre Angelin Lovay, per qualche tempo missionario con il padre Tornay, al loro superiore Mons. Adam. Sarebbe troppo lungo dare qui tutti i dettagli di ciò che la malvagità e la cupidigia dei lama hanno potuto escogitare contro la Missione e contro i cristiani. Questi uomini fanno prova di una doppiezza e di una astuzia incredibili; si sente che è il demonio che li ispira. Ma il padre Tornay non cederà ai ricatti di Gun-Akio: di fronte a misure vessatorie, a minacce, a calunnie, a tutto l'odio dimostrato, egli si mostra magnifico nella fermezza e raddoppia lo zelo per preparare il suo gregge ad ogni eventualità. Alla fine, viene espulso a forza il 26 gennaio 1946 e ricondotto, sotto la minaccia dei fucili, dall'altra parte della frontiera, in Cina.
Un pastore fedele al suo gregge
Da là continua a mantenere dei contatti con la sua parrocchia. È a questo scopo che si stabilisce a Pamé, alle porte del Tibet, dove resterà fino alla primavera del 1947. La scelta di questa residenza gli permette di vedere ogni giorno degli abitanti di Yerkalo che passano di là per il loro commercio, di incoraggiarli e di confermarli nella loro fede, e di essere lui stesso tenuto al corrente degli avvenimenti. I suoi fedeli, dice, si riuniscono segretamente in un capannone per pregare. La sua comunità è più unita che mai, per via della prova che attraversa. Apprende inoltre che i lama vogliono cacciarlo il più lontano possibile, che hanno confiscato la proprietà della missione, profanato la cappella ed obbligato i cristiani a destinare quindici dei loro bambini ai loro monasteri.
La cosa per lui più dolorosa è di essere separato dai suoi cristiani. Entrando in Tibet, non aveva altro scopo che di venire in aiuto alle anime; scacciato ignobilmente dalla sua parrocchia, non ha che una speranza, che un desiderio: ritornare tra i suoi cristiani. “Ritornerò a Yerkalo, costi quel che costi. I miei fedeli sono perseguitati. Il mio dovere è chiaro. Piuttosto la morte che lasciare la mia cristianità in quello stato”. Confessa che non avrà mai più la coscienza in pace se tralascerà un atto, anche eroico, per la salvezza del gruppo che gli è stato affidato. L'esempio dei sacerdoti che hanno dato la vita nell'esercizio dell'apostolato nella regione lo conforta nella sua determinazione.
Il viaggio di Lhasa
Siccome le pratiche presso le autorità consolari per tentare di ritornare al suo posto si erano dimostrate inutili, vuole tentare l’unica possibilità di riuscita che ancora gli resta: andare a Lhasa, la capitale del Tibet, perché, dice, il governo tibetano ignora quello che succede a Yerkalo oppure non conosce che la versione menzognera fornita dai lama. Spera di ottenere giustizia per i cattivi trattamenti inflitti ai missionari e ai cristiani di Yerkalo.
Non esita ad attraversare tutta la Cina per consigliarsi con il suo vescovo a Kunming e con il Nunzio a Shanghai e sottomettere loro il suo progetto; entrambi lo incoraggiano. Maurice non ignora tutti i pericoli che può rappresentare un tale viaggio, perché i lama l'avevano minacciato di morte tre anni prima; ma è la strada che gli indica il suo dovere. “Per intraprendere questo viaggio, ci vuole molto coraggio e savoir faire”, scrive, ma la decisione è presa: il viaggio verso Lhasa è l'ultima possibilità di rimettere piede a Yerkalo.
Nel giugno del 1949, viene a sapere che una carovana di mercanti cristiani sta per partire da Atuntze, dove risiede, in direzione di Lhasa. Ha qualche settimana davanti a lui per ottenere dai suoi superiori il permesso di partire, e per mettere a punto i dettagli della sua spedizione. “Fin dove arriverò? Cosa succederà? Non prometto niente”.
La carovana parte il 10 luglio. Solo il minimo indispensabile di persone è al corrente della sua partenza, perché sospetta spie e furberie da parte di Gun-Akio. È accompagnato da Doci, il suo servo fedele dopo che è stato scacciato da Yerkalo. Le tappe fino a Lhasa sono trentaquattro. La carovana si issa sui contrafforti del Choula, che raggiunge i 5000 metri in una scenografia sontuosa e segna la frontiera: si tocca ormai il suolo del Tibet. Per non destare sospetti, il padre è travestito da mercante tibetano. Sa che i lama temono la sua idea di appellarsi a Lhasa. Durante la marcia, recita il rosario.
La morte sotto i proiettili dei lama
Tuttavia, i monasteri dei lama di Karmda e di Sogun, messi al corrente di questo viaggio senza dubbio da una spia, tengono consiglio e decidono che bisogna farla finita una volta per tutte con il missionario. Solo ucciderlo potrà toglier loro di torno il loro nemico. Inviano dei messaggeri ai monasteri che si trovano lungo il percorso della carovana per fermare il padre, mentre quattro lama, ai quali viene promessa una bella somma di denaro se lo uccidono, si appostano sulla strada del ritorno.
La carovana è arrivata a metà del suo viaggio verso Lhasa. Il padre Tornay e tre carovanieri ricevono l'ordine di tornare indietro da due lama di Karmda e da alcuni soldati. Il padre resta fedele alla celebrazione quotidiana della Messa e alla recita del breviario. Non dà l'impressione di temere per la sua vita; la situazione è grave, senza dubbio, ma a lui dispiace soprattutto per i problemi che ha provocato.
Ripete diverse volte che si trova nella situazione del padre Nussbaum e che, se deve morire, sarà perfetto. Dice ai suoi servi Doci e Jouang: “Non bisogna aver paura; se veniamo uccisi, andremo tutti immediatamente in Paradiso. È per i cristiani che moriamo”.
L'11 agosto, appena dopo il passaggio del colle del Choula, cominciano, dopo un'ora, a ridiscendere e sono precisamente a 4350 metri quando i quattro lama di Karmda che si erano appostati, balzano loro addosso, caricano i fucili e sparano su Doci, poi sul padre Tornay che si accascia sotto le pallottole.
Il padre è arrivato al termine della strada che lo conduceva a Dio. Ha offerto la sua vita per coloro che amava, per i cristiani di Yerkalo. Questa morte non arriva per caso, è il compimento di un'esistenza offerta a Nostro Signore fino al dono totale di sé. Ricordiamoci questo giudizio di Mons. Adam: “Questa morte eroica fu il coronamento di una vita eroica”.
E poi...
Messo al corrente l'indomani, il canonico Alphonse Savioz invia da Atuntze dei portatori per raccogliere i corpi dei due martiri che trovarono completamente spogliati dei loro abiti e mutilati. Il canonico Tournay mostra diverse ferite di pallottola, di cui una alla testa. Sono inumati nel giardino della residenza missionaria.
Il padre Tornay segnerà profondamente i cristiani di Yerkalo, che l'hanno immediatamente considerato come un martire. Quarant'anni più tardi, nel 1988, fedeli al loro pastore, verranno a cercare i suoi resti e quelli del suo servo e li trasferiranno da Atuntze a Yerkalo (per più di duecento chilometri). Risposano ormai nel cimitero di Yerkalo, accanto agli altri quattro missionari francesi che vi hanno lasciato la vita.
Nel 1950 le truppe comuniste invadono il Tibet e lo annettono alla Cina; nel 1952 tutti i sacerdoti sono cacciati. Tuttavia, dei laici hanno assicurato la trasmissione della fede. Malgrado l'assenza totale di sacerdoti durante diversi decenni, non solo le comunità cristiane sono sopravvissute alle persecuzioni, ma si sono anche sviluppate. Ci sono in questa regione sul confine tra lo Yunnan e il Tibet delle ferventi comunità cattoliche. Circa settemila cattolici vivono oggi laggiù e riservano ai cattolici stranieri di passaggio un'accoglienza sconvolgente, malgrado la loro grande povertà. E la gente è veramente riconoscente quando riceve la visita di un sacerdote!
Tra queste comunità, la parrocchia di Yerkalo conta settecento membri. Qualche seminarista, nativo delle balze tibetane, segue i suoi studi nei diversi seminari cinesi, prima di poter aiutare i sacerdoti che passano una o due volte all'anno nelle parrocchie. Che magnifico esempio danno questi cristiani che hanno mantenuto la fede nonostante le persecuzioni e l'isolamento! È il frutto del sacrificio dei loro missionari, che non cessano di pregare per loro dall'alto dei cieli.
Don Hervé Gresland
FSSPX
(Articolo pubblicato a puntate su “Le Rocher c'est le Christ” (bollettino del Distretto svizzero della Fraternità San Pio X), nn. 67-68-69)
[1] - Articoli sulla vita e la fama di martire del Servo di Dio Maurice Tornay, canonico regolare del Grand San Bernardo. Stamperia Saint-Augustin, Saint-Maurice, 1953 (articolo pubblicato del Canonico Charles Giroud).
[2] - Ci vogliono due ore e trenta per andare da Crêtes ad Orsières.
[3] - A questo punto egli ha 21 anni e lei 19.
[4] - Dall'altra parte della frontiera sino-tibetana, Yerkalo è la sola missione cattolica sul territorio del Tibet.
[5] - Tutti i media e le autorità della Chiesa conciliare ce lo presentano oggi come un apostolo della non violenza, ecc. La realtà è tutt'altra: i lama non fanno altro che subire da parte dei comunisti quello che essi stessi hanno fatto subire per secoli ai cattolici.