di Marcello Caruso Spinelli
È opinione che quando uno nasce povero, sia più agevolato sulla via della salvezza, ma spesso il desiderio della ricchezza e di possesso occupa i pensieri di chi è nato nella miseria.
Perciò se un uomo nato povero continua volontariamente a mantenersi povero, seguendo le parole di Gesù nel discorso delle beatitudini, non conquistando nessun ufficio, pur minimo, nella società e nella Chiesa, praticando eroicamente le virtù cristiane e la sua morte viene accompagnata da prodigi, non si dovrà ritenere un santo raro?
Questa è la storia di un uomo poverissimo, Enrico da Bolzano, vissuto, di stenti e di elemosine, a Treviso, nei primi anni del ’300, tutto dedito alla pratica delle virtù cristiane e all’amore per Gesù Cristo. Alla sua morte accaddero tali meraviglie che tutto il popolo accorse ai suoi funerali, anzi questi dovettero essere rinviati ed essere svolti in modo solenne, perché tutti quanti i trevigiani di ogni ceto volevano pregare davanti alla sua salma. Molti furono i malati guariti e gli afflitti confortati e il suo culto, in breve, si diffuse in varie provincie della Germania e della Dalmazia e in tutta l’Italia del nord.
Il Beato Enrico nacque a Bolzano (città del Tirolo) nella prima metà del XIII secolo. Si ignora la data precisa della sua nascita, ma se la Chiesa chiama «giorno natalizio» dei santi quello in cui hanno terminato il pellegrinaggio terreno, non ci deve interessare quando egli nacque. Il nome di Enrico gli fu imposto nel Battesimo, perché assai diffuso in Germania dove c’era una grande devozione verso il santo imperatore Enrico.
Non si sa nulla dei suoi genitori e l’unica notizia sicura e che Enrico prese moglie, dalla quale ebbe almeno un figlio, Lorenzo, che diventò come lui un buon spaccalegna.
Non conosciamo niente della prima parte della sua vita, ma, sicuramente, davanti a Dio deve essere stata nobilissima per umiltà, purezza, pazienza e altre virtù, se in seguito egli raggiungerà una così alta perfezione cristiana.
Quale è stato il motivo della sua venuta a Treviso? Le ipotesi degli storici sono diverse, ma la più accreditata è che Enrico, accompagnato dal figlio e dalla moglie, mendicando lungo la strada il pane necessario, da vero pellegrino cristiano che confida tutto nella divina Provvidenza, che non lascia morire nemmeno il più piccolo degli uccelli dell’aria, parte dal Tirolo per intraprendere un lungo pellegrinaggio in Italia, in particolare per visitare la Santa Casa di Nazareth, che da pochi anni era stata miracolosamente traslata dagli angeli nella città di Loreto, e le tombe di San Francesco ad Assisi e di Sant’Antonio a Padova,
È probabile che Enrico arrivò fino a Roma per lucrare l’indulgenza plenaria legata all’indizione del Giubileo universale dell’anno 1300.
Durante il viaggio di ritorno, o anche prima, Enrico aveva forse sentito parlare della città di Treviso, nobile capitale della Marca, conosciuta per la buona amministrazione civile e per la buona fama riguardo alla pratica religiosa dei suoi abitanti.
A questo va aggiunto che era consuetudine per i montanari del Cadore e del Tirolo scendere al piano per vendere i loro prodotti o cercare lavoro.
Quindi, alla fine del XIII secolo, Enrico giunge a Treviso e si stabilisce a Biancade, una località nei pressi di San Biagio di Callalta, a pochi chilometri dalla città, lavorando come boscaiolo, insieme al figlio Lorenzo.
Enrico conduceva una vita faticosa, ma totalmente offerta a Dio, una vita che era d’esempio per i compagni di lavoro che ne ammiravano la pazienza e l’umiltà.
Esemplare era la carità che manifestava verso coloro che erano più poveri di lui, dividendo con loro il pane e tutto questo finché gli bastarono le forze, non tanto per l’età avanzata, quanto per le penitenze che praticava e che l’obbligarono a smettere di lavorare.
Dopo essere rimasto vedovo, forse verso il 1310, Enrico, ormai quasi settantenne, lascia il lavoro di boscaiolo al figlio e si trasferisce a Treviso. Qui egli visita quotidianamente la Cattedrale fin dal mattino, dove assiste al divino ufficio e a quante Sante Messe poteva e confessando ogni giorno le sue lievi negligenze, come «l’aver guardato con un po’ di piacere un uccellino volare».
Dalla Cattedrale si recava tutti i giorni nelle altre chiese della città, specialmente per ascoltare le prediche e, durante la strada da una chiesa all’altra, pregava in ginocchio davanti alle immagini sacre che incontrava.
A questa vita contemplativa e di vero asceta, Enrico univa una rigida mortificazione, ideando nuove maniere per dominare il suo corpo. A tal proposito significativo è il seguente episodio.
Un giorno Enrico incontrò, lungo il fiume Sile, una donna che portava in città dei grossi gamberi appena pescati e gliene chiese alcuni per carità. Dopo averli ricevuti, credendo di aver commesso un peccato di gola, se li infilò dentro la maglia, perché, con le chele, lo mordessero e non li tolse neanche quando, ormai morti, emanavano un cattivo odore.
Così si puniva per quelle che nemmeno erano lievi colpe!
Bastava vederlo per capire che egli cercava sempre di completare in sé ciò che manca alla Passione di Cristo.
Sotto un largo e povero vestito di panno grigio, con tabarro e cappello, che portava quasi sempre attaccato alla cintola, egli indossava dei poveri calzoni che nascondevano delle corde che stringevano, come un cilicio, le gambe fino alle ginocchia. Camminava appoggiandosi ad un bastone e tenendo sempre la Corona del Rosario in mano.
Accettava l’elemosina per amor di Dio, tenendo per sé soltanto quel poco che era sufficiente al sostentamento di un giorno, mentre il resto lo distribuiva agli altri poveri che radunava intorno a sé sui gradini del Duomo.
Quando qualcuno lo avvicinava per parlargli, egli, che non sapeva leggere e scrivere, parlava delle cose divine con una grazia che commuoveva chiunque lo ascoltasse.
Non mancavano i cattivi che lo prendevano in giro, ma Enrico traeva da queste umiliazioni nuove occasioni per patire serenamente e di rendere il bene per il male, perché la sua umile e semplice vita era veramente centrata sulle virtù evangeliche.
Quella santa vita non poteva sfuggire ai buoni e, un giorno, il notaio Giacomo da Castagnole gli offrì un rifugio in un modesto locale che teneva accanto alla sua dimora, vicino al monastero di Santa Maria Nova.
Enrico accettò, ma si preparò tre giacigli: uno duro di sarmenti di viti, il secondo, anch’esso duro, di funi intrecciate con grosse corde di lino e il terzo di dura paglia, sul quale, tenendo stretto sul corpo il cilicio fatto di corde, usando un pezzo di legno come capezzale e coprendosi con ruvide lenzuola di grossa canapa, si riposava quando le lunghe orazioni, le pesanti penitenze e i prolungati digiuni, lo rendevano particolarmente debole. E questo non per riprendere le forze, perché durante la notte si flagellava con la disciplina e si percuoteva il petto con un sasso.
Sembra che durante la notte parlasse con gli angeli e con Dio stesso, come raccontò la moglie del notaio, Caterina, donna buona e pia, che più volte, passando davanti alla camera del beato, fu testimone di questi celesti dialoghi. L’indomani, alle domande della donna, Enrico rispondeva evasivamente, andandosene subito a visitare le chiese della città, soffermandosi particolarmente sotto il portico del Duomo, seduto e con lo sguardo fisso verso un’immagine della Santa Vergine che contemplava per delle ore.
Come descrivere la vita di questo santo asceta nascosto agli uomini, ma noto a Dio che si compiaceva di illuminare quest’anima eletta per l’edificazione degli abitanti di Treviso?
Un giorno, alcuni parrocchiani della Chiesa di San Giovanni del Battesimo videro il beato Enrico pregare davanti ad un’immagine che raffigurava i santi Fiorenzo e Vendemiale, quando, improvvisamente, scoppiò un nubifragio. Cessato il temporale, i parrocchiani, ridendo e scherzando, chiesero al beato, che per tutto quel tempo non si era mosso da sotto l’immagine, cosa si provava ad essere completamente bagnati. Ma, toccatolo, constatarono, con grande stupore, che egli era completamente asciutto, come se fosse stato sotto il sole e non sotto una scrosciante pioggia. Da allora lo stimarono come un santo.
Un’altra volta, un povero sarto che con carità gli rattoppava i laceri calzoni, si forò un dito con l’ago che gli rimase per metà dentro. Il poveretto, oltre al fortissimo dolore, non aveva pace, perché insieme al dito avrebbe perso anche il lavoro e, quindi, la fonte della propria sussistenza. Sarebbe stato costretto a mendicare il cibo per vivere.
Il beato Enrico, sentendo i suoi lamenti, dopo essersi rivolto a Dio, gli disse: «Non dubitare fratello, che ritornerai sano». Quindi gli toccò il dito e il sarto non sentì più il dolore e riprese a lavorare come prima.
Il beato Enrico terminava il suo pellegrinaggio terreno il 10 giugno del 1315 e in quel giorno avvennero dei fatti talmente straordinari da far immediatamente pensare ai trevigiani che era morto un santo.
Durante la processione funebre dal luogo della morte al Duomo, improvvisamente le campane della Cattedrale incominciarono a suonare con insolita soavità, seguite dalle campane delle altre chiese della città. In poco tempo arrivò gente da tutta la città, mentre dappertutto risuonava il grido: «È morto un santo!». In breve il corteo funebre diventò una fiumana di gente con alla testa il clero della città e la straripante folla riuscì ad impedire di seppellirlo, perché ognuno voleva toccare e vedere il suo venerabile corpo che, avvolto in un povero panno, sembrava addormentato.
Il Vescovo, dando lode a Dio, fece collocare il corpo nel centro della chiesa, erigendo attorno ad esso uno steccato di legno per permettere ai fedeli di vederlo. Il corpo del beato rimase così per otto giorni, durante i quali non diede il minimo segno di putrefazione. E la stagione, raccontano le cronache, era particolarmente calda!
Durante il trasporto delle spoglie mortali erano già avvenuti dei fatti miracolosi: un uomo, colpito da artrite che non gli permetteva di camminare se non sostenuto da due grucce, fu improvvisamente guarito e continuò a seguire il corteo funebre con le mani alzate, perché tutto il popolo potesse vedere ciò che Dio aveva compiuto per mezzo del suo servo Enrico. E così molti altri furono liberati dalle loro infermità, per cui fu necessario tenere la chiesa aperta anche durante la notte per permettere l’afflusso dei fedeli che facevano a gara per illuminare il luogo sacro accendendo candele, fra le pietose invocazioni di coloro che chiedevano l’intercessione del beato.
In poco, da tutte le zone attorno a Treviso, abbandonando anche il lavoro nei campi, accorsero migliaia di fedeli.
Il corpo del beato Enrico fu, in seguito, posto in un’urna di pietra dono della Repubblica di Venezia «per riverenza del beato Rigo», a conferma che la sua fama di santità si era presto diffusa fuori delle mura di Treviso.
Un’ulteriore conferma della venerazione verso il beato Enrico ci viene dal racconto di due cittadini di Treviso che, fatti prigionieri durante la guerra contro i ferraresi furono liberati «per amor del beato Rigo».
Il «grande miracolo» che testimonia la predilezione di Dio nei confronti del beato Enrico è, però, la conservazione, ancora oggi, del suo sangue, vivido e incorrotto, che nel giorno della sua festa, il 10 di giugno, viene esposto, nel Duomo di Treviso, alla venerazione dei fedeli.
Dopo varie vicissitudini, nel 1750, il culto del beato Enrico fu approvato per la diocesi di Treviso e all’inizio del 1800 da Pio VII per la diocesi di Trento da cui dipendeva Bolzano.
Il pomeriggio del 10 di giugno era considerato, per i trevigiani, festa di precetto: tutte le botteghe chiudevano ed ogni attività cessava per permettere ai fedeli di recarsi in Duomo per venerare il corpo e il sangue incorrotto del santo, pratica che, nonostante i disastri procurati dall’era del Concilio Vaticano II, continua ancora oggi.
Particolarmente devoto verso il beato Enrico fu il Vicario Capitolare di Treviso, Giuseppe Sarto, che ripristinò la Confraternita dedicata al beato, fece riprendere la celebrazione della Santa Messa nella chiesa edificata nel luogo dove egli era vissuto e procedette all’acquisto del terreno di Biancade, dove il beato aveva trascorso diversi anni, per farvi costruire un oratorio.
Oggi, il corpo del beato Enrico è venerato nella Cattedrale di Treviso, presso il primo altare laterale a destra: primo santo che accoglie i fedeli che entrano in chiesa, compagno dei poveri, dei pellegrini e di coloro che, conosciuti solo da Dio, lo invocano come protettore.