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L'11 ottobre 1962 cominciava a Roma il Concilio Vaticano II. Attraverso i suoi documenti e il suo spirito, la grande assise ecclesiastica avrebbe impresso alla Chiesa cattolica una svolta radicale, che non lasciò immutato praticamente nessun aspetto della dottrina e della vita cristiana. In un tempo sorprendentemente breve, tutto fu riveduto, aggiornato, modificato alla luce del Vaticano II, definito da Paolo VI "più importante del Concilio di Nicea".
Si parlò di una nuova Pentecoste, grazie alla quale per la Chiesa cattolica si sarebbe aperta una nuova era. In effetti, che per certi versi sia cominciata una nuova era, è indubbio. A distanza di cinquant'anni, la Chiesa versa in una situazione di gravissima crisi, quale mai vi fu nella sua bimillenaria storia. Non ci riferiamo solamente agli scandali in ambito dottrinale e disciplinare che provengono dai più alti elementi della Gerarchia, ma anche alla generalizzata perdita del sensus fidei tra il popolo cristiano. Che la fede si trovi dappertutto in ritirata è confermato dal fatto che alla celebrazione del cinquantenario del Concilio è stato associato un "anno della fede", destinato appunto ad approfondire i punti fondamentali della dottrina cristiana.
In un contesto del genere, era impossibile che il Convegno di Studi Cattolici, che la Fraternità S. Pio X organizza ogni anno a Rimini, non si occupasse del Concilio Vaticano II e dei suoi effetti sulla fede cattolica. Si tratta, com'è evidente, di un argomento di capitale importanza, non per la sua novità, visto che il Convegno si è già occupato altre volte dei problemi connessi al Concilio, ma per il contesto in cui si inserisce. Il dibattito sul Concilio, infatti, si sta diffondendo a tutti i livelli. Alla "vulgata" della celebrazione acritica e dell'esaltazione incondizionata subentra un atteggiamento di perplessità e di riserva. Molti si chiedono se la crisi che travaglia la Chiesa sia da ricercarsi nei documenti stessi del Concilio e non in un generico e indefinito "postconcilio" che li avrebbe travisati. Gli studi che si occupano della questione si moltiplicano di giorno in giorno, anche nel mondo cattolico "ufficiale". Si fa sempre più strada l'idea che la disamina della situazione attuale non possa non essere posta in diretta correlazione con l'ultima assise conciliare. Il nocciolo del problema può essere sintetizzato in una domanda: Il Vaticano II è in continuità o in rottura col precedente Magistero della Chiesa? Si è trattato di Tradizione o di rivoluzione? Questo, nella sostanza, è l'interrogativo cui il Convegno di Rimini di quest'anno ha cercato di dare una risposta.
Benché gli interventi dei relatori abbiano avuto per oggetto temi assai diversi e in apparenza eterogenei, ci è parso di scorgere un filo logico che ha dato unità e coerenza a tutto il Convegno. In effetti, si è partiti dalla disamina degli effetti più notevoli della crisi attuale, per risalire alla loro causa nelle novità dottrinali contenute nei documenti del Concilio e del magistero postconciliare. In attesa della pubblicazione degli atti, diamo una breve panoramica degli interventi, cercando di enuclearne i temi fondamentali.
1) Alessandro Fiore. "Un albero si giudica dai frutti. Le conseguenze del Concilio". La relazione si compone di due parti. Nella prima, di carattere analitico, Fiore prende in esame le conseguenze più gravi e preoccupanti della crisi attuale. Attraverso un impressionante numero di dati statistici, illustrati con l'ausilio di grafici e schemi, si dimostra che la diminuzione del numero di sacerdoti, di religiosi e di vocazioni prende avvio proprio durante gli anni del Concilio. Lo stesso deve dirsi per quanto riguarda la pratica religiosa dei cattolici. Al calo della quantità non fa riscontro, come qualcuno pretende, un aumento della qualità. I sondaggi più recenti mostrano che, tra gli stessi cattolici praticanti, solamente una piccola percentuale si dice d'accordo con l'insegnamento della Chiesa, non solo sulle questioni morali ma anche su alcuni articoli dogmatici. Il quadro che emerge dalla disamina di Fiore è desolante ma profondamente realistico. Che dopo il Concilio Vaticano II vi sia stata, per usare le parole di Paolo VI, "una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza" (Omelia del 29 giugno 1972), è innegabile. Lo prova la statistica, prima ancora che la storia. E contra factum non valet argumentum, nonostante vi sia, ancora oggi, chi si ostina a negare l'esistenza stessa della crisi. La seconda parte dell'intervento è di indole sistematica.
In essa Fiore fa il punto della questione circa il rapporto tra le manifestazioni della crisi, messe in evidenza nella prima parte, e i documenti del Concilio. Si tratta di una consequenzialità puramente cronologica (post hoc sed non propter hoc) oppure di una consequenzialità anche ontologica (post hoc quia propter hoc)? In altre parole, vi è un rapporto di causalità tra il Concilio e la crisi? Fiore si propone di risolvere il problema alla luce dei principi della filosofia tomista. Non ci è possibile, in questa sede, addentrarci nei dettagli della sua dimostrazione. Vogliamo tuttavia ricordare il principale argomento addotto. Per produrre un certo effetto, si richiede una causa adeguata. Ora, la crisi la Chiesa sta attraversando è generale (riguarda cioè ogni ordine e grado della compagine ecclesiastica) e universale (riguarda cioè tutta la Chiesa, senza distinzioni di luogo o di situazione). Pertanto essa postula una causa altrettanto generale e universale, la quale, se guardiamo alla storia degli ultimi decenni, non può che essere rintracciata nel Concilio Vaticano II. Sarebbe impossibile, infatti, che una crisi del genere dipendesse soltanto da un problema interpretativo, il quale, non rivestendo le caratteristiche di generalità e universalità, costituirebbe una causa assolutamente sproporzionata rispetto all'effetto.
2) Francesco Colafemmina. "Il nostro tempo è tempo di Rivoluzione. Arte ed architettura sacra. Il Concilio della Rottura".
Come quella di Fiore, anche la relazione di Colafemmina tende a mettere in luce alcuni dei più notevoli effetti della crisi. Colafemmina stabilisce un efficace parallelo tra la decadenza dell'arte sacra e l'adattamento della Chiesa al pensiero moderno. La Chiesa cattolica, dalla fine delle persecuzioni romane alla rivoluzione francese, è apparsa capace di formulare un proprio linguaggio artistico, che va dal paleocristiano al barocco, in un processo di evoluzione organica. L'arte sacra non era che l'espressione estetica dei principi teoretici della filosofia e della teologia cristiana. Da ciò derivava la sua intima unità, pur nei diversi modi espressivi ideati attraverso la storia. La rivoluzione francese, stabilendo una profonda frattura tra religione e società civile, segna una discontinuità. La Chiesa non riesce più ad esercitare la sua influenza sulla produzione artistica e, durante il XIX secolo, ripiega sull'imitazione, peraltro non priva di esiti soddisfacenti, degli stili del passato.
Parallelamente, l'arte profana si caratterizza per un allontanamento sempre più netto dai canoni estetici tradizionali, sulla scorta delle filosofie contemporanee. Al ristagno dell'arte sacra reagiscono, dopo la prima guerra mondiale, alcuni ecclesiastici di area francese. Ma non lo fanno stimolando lo sviluppo di un'arte autenticamente cattolica, che si inserisca, con nuovi apporti, nella ricca tradizione del passato, interrotta dalla rivoluzione francese. Il criterio da essi adottato è un altro: bisogna che l'arte sacra si adegui in tutto ai canoni estetici della modernità. Di qui il pullulare, fin dagli anni '20, di chiese che vanno dallo stravagante all'informe. Il problema, tuttavia, è assai più profondo e non si esaurisce alla semplice estetica. L'arte moderna, infatti, non è altro che l'espressione del pensiero moderno. Ora, dagli scritti degli ecclesiastici sopra menzionati si evince chiaramente che l'"aggiornamento" dell'arte sacra non è finalizzato solamente a stare, come si suol dire, al passo coi tempi, né è solo un'espressione di sudditanza rispetto al mondo artistico profano. In realtà, c'è molto di più. Attraverso il mutamento delle forme espressive, si vuole indurre un mutamento nella concezione del culto, anzi, in ultima analisi, nella concezione della Chiesa stessa. È impossibile, per esempio, non mettere in correlazione il pauperismo decorativo con una idea vagamente gnostica che tende a rigettare ogni manifestazione esteriore della religione.
E così pure non si può non stabilire un parallelo tra il ricorso all'astrattismo e l'odierna mentalità scettica, secondo cui la realtà, ivi compreso Dio, è sostanzialmente inaccessibile alla conoscenza umana. In modo analogo, la pianta circolare che caratterizza moltissime chiese edificate dalla vigilia del Concilio si fonda su una nuova ecclesiologia, non più verticistica e monarchica, ma orizzontale e democratica. È vero, dunque, che la degenerazione dell'arte sacra comincia ben prima del Concilio, ma è anche vero che tale degenerazione deriva da principi filosofici e teologici estranei alla Tradizione cattolica e, invece, abbondantemente presenti nei documenti conciliari. In questo senso, l'attuale situazione dell'arte sacra cattolica costituisce un'ulteriore prova del rapporto di causa ed effetto che intercorre tra il Concilio e la crisi posteriore.
3) Don Pierpaolo Petrucci. "Il Concilio Vaticano II e la salvezza delle anime. La morte dello spirito missionario".
A partire dalla presente relazione, l'attenzione si sposta dall'analisi degli effetti della crisi alla ricerca delle sue cause nella dottrina del Concilio e del Magistero postconciliare. L'intervento di Don Pierpaolo Petrucci può essere suddiviso in due parti. La prima è una lucida ed articolata esposizione del dogma cattolico "extra Ecclesiam nulla salus". Ci limitiamo, qui, ad una breve sintesi. L'appartenenza alla Chiesa di Cristo è condizione necessaria alla salvezza. Ora, secondo la teologia cattolica, si può appartenere alla Chiesa sia realmente, attraverso il battesimo, la professione della vera dottrina e l'obbedienza ai legittimi pastori, sia in voto, ossia attraverso il desiderio esplicito o implicito di far parte della Chiesa.
Desiderio esplicito è quello, per esempio, del catecumeno che si prepara al battesimo: anch'egli appartiene, in voto, alla Chiesa, e pertanto può conseguire l'eterna salvezza. Desiderio implicito è invece quello di chi, avendo raggiunto l'età della ragione, si trova nell'ignoranza invincibile della vera religione, ma, nonostante questo, vive secondo i dettami della legge naturale e intende compiere, nella misura in cui la conosce, la volontà di Dio.
Certo, sarebbe erroneo ritenere che, nel caso dell'appartenenza in voto, sia possibile ottenere la salvezza senza la grazia, per sola virtù naturale. Ma è pure noto che Dio, volendo che tutti si salvino (1 Tim. 2, 4), elargisce a tutti la grazia sufficiente in ordine alla salvezza, anche a coloro che, senza propria colpa, si trovano al di fuori dell'ambito visibile della Chiesa. Inoltre, poiché la dottrina cattolica insegna che la conoscenza almeno dei misteri della SS. Trinità, dell'Incarnazione e della Redenzione è necessaria come necessità di mezzo (ossia assoluta) per salvarsi, bisogna supporre che coloro i quali appartengono alla Chiesa soltanto per voto implicito ricevano in un certo momento della loro vita una speciale rivelazione intorno a questi misteri.
D'altra parte, è indispensabile precisare che costoro "sebbene da un certo inconsapevole desiderio e anelito siano ordinati al mistico Corpo del Redentore, tuttavia sono privi di quei tanti doni ed aiuti celesti che solo nella Chiesa Cattolica è dato di godere" (Pio XII, enciclica "Mystici Corporis Christi", 29 giugno 1943); perciò la loro salvezza, benché possibile, è tuttavia assai più difficile rispetto a coloro i quali appartengono realmente e visibilmente, come membri, alla Chiesa. Terminata l'esposizione della dottrina tradizionale circa l'appartenenza alla Chiesa, Don Pierpaolo Petrucci, nella seconda parte del suo intervento, passa a considerare le trasformazioni che essa ha subito nei documenti del Vaticano II. Anche qui, per ragioni di brevità, non possiamo esporre dettagliatamente tutti i punti toccati dal relatore. Basterà far riferimento alla costituzione "Lumen gentium", la quale, con la ben nota espressione "subsistit in", peraltro suggerita da un osservatore protestante, nega che la Chiesa di Cristo si identifichi esclusivamente con la Chiesa cattolica.
Ciò è confermato da quanto espone il decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”: anche nelle altre religioni si trovano non pochi elementi di verità, dei quali lo Spirito Santo non ricusa di servirsi come mezzi di salvezza. Qui si potrebbe facilmente osservare che una religione non è un conglomerato di verità scollegate le une dalle altre, ma un tutto organico, per cui basta un solo errore per rendere falsa l'intera religione. Ma il problema più notevole è un altro, e cioè che, in questo modo, si estendono i confini della Chiesa di Cristo ben oltre la Chiesa cattolica: la Chiesa di Cristo, in altre parole, si troverebbe pienamente nella Chiesa cattolica e non pienamente nelle altre religioni (donde il concetto di "comunione non piena" o "comunione imperfetta"), le quali, pertanto, si configurerebbero come mezzi efficaci, benché imperfetti, di salvezza.
Quanto tale modo di esprimersi differisca dalla dottrina tradizionale - secondo cui gli acattolici possono salvarsi non grazie ad una falsa religione ma nonostante essa, a causa del desiderio implicito di far parte della Chiesa cattolica - è evidente a chiunque. Né si deve pensare che nel magistero postconciliare vi sia stato un sostanziale cambio di rotta. Nei documenti di Giovanni Paolo II e nella stessa celebre istruzione "Dominus Iesus" i principi esposti sono, nella sostanza, i medesimi. Sul piano pratico, l'idea secondo cui tutte le religioni, sia pure in grado diverso, sono mezzi di salvezza, ha condotto, come recita il titolo dell'intervento, alla morte dello spirito missionario. Secondo Giovanni Paolo II, infatti, la ragione ultima dell'evangelizzazione non va ricercata nella salvezza delle anime, ma nel desiderio di portare agli altri la gioia che si è conosciuta e sperimentata: ci troviamo, qui, in una prospettiva decisamente personalistica, nella quale la fede cattolica appare non come una necessità per salvarsi, ma come una possibilità per vivere meglio.
4) Alessandro Gnocchi. "Dal linguaggio della Rivoluzione alla rivoluzione del linguaggio. Cosa il Vaticano II ha detto di nuovo e cosa ha taciuto di antico".
Se l’intervento precedente verteva soprattutto sul contenuto dei documenti conciliari, Gnocchi sposta l'attenzione sulla loro forma. Si tratta di un aspetto la cui importanza è stata troppo a lungo sottovalutata. A lungo il mezzo di comunicazione è stato concepito come un elemento sostanzialmente indifferente, che può essere usato in modo buono o cattivo a seconda dei contenuti che attraverso esso si veicolano: così si esprime, per esempio, il decreto conciliare "Inter mirifica". Gnocchi, invece, sulla scorta di alcuni studiosi cattolici di linguistica, afferma che il linguaggio influisce decisamente sul contenuto, per cui la variazione del mezzo comporta pure una variazione, più o meno importante, del messaggio. Ora, è un fatto che l'assise conciliare, fin dal discorso di apertura di Giovanni XXIII, si è proposta di esporre la dottrina cattolica utilizzando il linguaggio del mondo moderno, sia a livello di espressione verbale sia a livello di mezzi di comunicazione. Ora, questo nuovo linguaggio, secondo Gnocchi, ha avuto sulla dottrina delle conseguenze assai più gravi di quanto comunemente si ritiene. Adottare il linguaggio del mondo moderno significa adottare le categorie del mondo moderno, le quali però non possono armonizzarsi con la dottrina cattolica senza profondamente modificarla.
L'avevano ben compreso i novatori, quando chiesero che gli schemi preparatori fossero rigettati in quanto scritti in un linguaggio eccessivamente scolastico. Erano consapevoli che la sola modifica del linguaggio avrebbe di per sé comportato la modifica della percezione della dottrina, e ciò indipendentemente dalle modifiche nel contenuto della dottrina stessa. Per questo, secondo Gnocchi, la rivoluzione conciliare è stata così vasta e articolata: attraverso l'adozione di un nuovo linguaggio, si sono perdute le categorie concettuali attraverso cui la dottrina veniva conosciuta e compresa. In un certo senso, il cattolico abituato al linguaggio ecclesiastico moderno non possiede, generalmente parlando, gli strumenti per comprendere l'insegnamento della Chiesa nel suo senso tradizionale: sarà infatti naturalmente portato ad interpretarlo attraverso le categorie del pensiero moderno, essenzialmente soggettivista e relativista. Gnocchi conclude il suo intervento con alcune proposte di soluzione. Bisogna procedere in due sensi: da un lato, la Chiesa deve acquisire piena coscienza dell'influsso del mezzo sul messaggio, così da poter utilizzare in modo veramente efficace i moderni mezzi di comunicazione; dall'altro, è necessario tornare alla chiarezza e alla perspicacia che caratterizzava il linguaggio ecclesiastico prima del Concilio. Non è infatti possibile non conformarsi al mondo (Rom. 12, 2) se si pretende di utilizzare lo stesso linguaggio - e quindi le stesse categorie - del mondo.
5) Don Mauro Tranquillo. "Il rinnegamento della Tradizione romana: nuovi riti per una nuova Chiesa?".
L'intervento di don Mauro Tranquillo riveste un particolare interesse. Esso ha per oggetto un argomento scarsamente trattato, vale a dire la modifica del cerimoniale della curia pontificia, che però non viene trattato da un punto di vista meramente rituale-pratico, il che avrebbe poco senso in un convegno dal taglio dottrinale, bensì considerando la liturgia come locus theologicus, cioè come riflesso della dottrina sul piano cultuale. Don Tranquillo comincia la sua trattazione sull'argomento citando alcuni discorsi di Paolo VI alla nobiltà e al patriziato romano, che, com'è noto, nelle liturgie papali costituivano la cosiddetta corte laica. Due punti del pensiero del Pontefice vengono particolarmente messi in rilievo.
Anzitutto, Paolo VI avanza l'idea che la presenza della corte laica nel contesto delle funzioni pontificie altro non fosse che un retaggio del potere temporale del papato, mantenuto anche dopo la fine di questo a semplice scopo rivendicativo; in tal modo, prepara il terreno all'effettiva dismissione della corte laica, che a partire dal 1968 non avrà più alcun ruolo nelle cappelle pontificie (motu proprio "Pontificalis domus"). Ma c'è anche un altro motivo, assai più profondo, per cui è necessario rivedere il ruolo della corte laica e, più in generale, il cerimoniale papale: la diversa concezione della Chiesa - e quindi anche del Papato - scaturita dal Concilio. Nel discorso alla nobiltà del 13 gennaio 1966 si legge: "Che cosa è questa Chiesa, che voi, amici del Vaticano, vedete così da vicino nei suoi più qualificati rappresentanti, nelle sue forme più caratteristiche, nei suoi costumi più tradizionali, e anche nei suoi difetti più umani e più ricorrenti? Che cosa è? Che cosa è? Noi pensiamo che, proprio in virtù del Concilio, si sia risvegliata questa insoddisfatta e assillante domanda, non più paghi, come ora certamente siete, di una qualche formale e convenzionale e parziale risposta: che cosa è, che cosa è la Chiesa per i vostri occhi, per la vostra cultura, per la vostra educazione moderna, per le vostre anime; che cosa è?".
I concetti sono sufficientemente chiari: i nobili romani sono invitati ad imitare i Padri del Concilio ecumenico nel domandarsi che cosa è la Chiesa, non - si badi bene - oggettivamente e in se stessa, ma soggettivamente, per loro e per il mondo moderno. Occorre dunque, in un certo modo, ridefinire la Chiesa in modo da renderla accetta alla sensibilità del mondo contemporaneo. In questo quadro si inserisce pure la radicale trasformazione del cerimoniale papale, espressione, secondo Paolo VI, di un epoca ormai conclusa. Ma è realmente così? Attraverso una rapida disamina dei testi storici, Don Mauro Tranquillo mostra che, se da un lato è innegabile che molti elementi della liturgia papale derivano dal cerimoniale imperiale romano, dall'altro i Sommi Pontefici erano perfettamente consapevoli che il loro impiego aveva un fine prettamente spirituale: esaltare in modo visibile, come la liturgia richiede, il Vicario di Cristo, principio e apice di tutti i poteri di questo mondo. La continuità con la tradizione romana precristiana è concepita come continuità di un impero universale - ossia cattolico nel senso etimologico del termine - voluto da Dio per agevolare la diffusione della vera fede, impero che, come afferma San Tommaso, non è finito con la caduta della Roma temporale, ma è passato alla Roma spirituale, ossia alla Chiesa.
La liturgia papale, dunque, è chiamata ad esprimere questa grandiosa concezione, in cui tutta la Chiesa, anzi, in un certo senso, tutto il mondo si piega a rendere omaggio a Cristo nella persona del suo Vicario. Ma tutto ciò non poteva reggersi dopo il Concilio Vaticano II, non tanto perché il papato ha perduto il suo potere temporale, quanto perché la Chiesa ha una nuova idea di se stessa e del suo rapporto col mondo. In questo modo, è facile comprendere la vera ragione delle trasformazioni della liturgia papale tradizionale. Ci limitiamo ad alcuni esempi concreti. Se i Cardinali e i Vescovi non fungono più da ministri inservienti del Papa, ciò corrisponde alla nuova dottrina della collegialità espressa da "Lumen gentium" (ed espressamente ricordata da Bugnini come fondamento della riforma in questione).
Se il Papa non appare più circondato da tutti quei segni che ne sottolineano l'assoluto primato (sedia gestatoria, trono, triregno, paramenti particolari, tanto per limitarci agli elementi più notevoli), è perché il nuovo atteggiamento ecumenico e secolarizzante mal li sopporta. Se la corte laica - la quale ha lo scopo di rappresentare il potere temporale che si unisce allo spirituale nell'omaggiare il vicario di Cristo - scompare, non dobbiamo forse avvisarvi un riflesso della dottrina di "Dignitatis humanae", per cui lo Stato non ha più il dovere di riconoscere ed onorare la vera fede? Al termine di questa opera di "aggiornamento", della tradizione curiale romana non rimane praticamente più niente. Oggi il Papa - tolti alcuni dettagli accidentali - pontifica come un qualsiasi altro Vescovo.
6) Matteo D'Amico. "Il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato. “Nostra Ætate” e la nuova teologia del rapporto fra Chiesa cattolica ed Ebraismo".
All'intricata questione del rapporto tra cattolicesimo ed ebraismo è dedicato l'ampio intervento di Matteo D'Amico. I punti toccati sono molti e ci sarebbe difficile ricordarli tutti. Ci limiteremo all'essenziale. Che il Concilio abbia segnato una radicale svolta, anzi, una vera e propria rottura rispetto alla dottrina tradizionale sull'ebraismo, è cosa universalmente ammessa. Non si tratta di un semplice cambio di atteggiamento, nella prospettiva dialogica ed ecumenica inaugurata dal Vaticano II. Ci si è spinti ben oltre, fino alla elaborazione di una nuova teologia in cui l'antica alleanza, essendo ancora valida, costituisce un mezzo di salvezza alternativo ed equivalente alla nuova. A dimostrazione di questa svolta, D'Amico cita i discorsi papali in cui si parla degli ebrei come "fratelli maggiori" o "padri nella fede"; e cita pure le parole di approvazione e di benedizione rivolte dal regnante Pontefice ad una delegazione del B’nai B’rith, principale organo della massoneria giudaica internazionale.
D'Amico passa poi ad illustrare la dottrina tradizionale sull'ebraismo, imperniata sulla teologia della sostituzione, confutando le più comune obiezioni. Rifiutando ostinatamente di riconoscere il Messia, la sinagoga cessa di essere la depositaria della divina alleanza, che da quel momento in poi passa (sostituzione) alla Chiesa. A nulla vale obiettare che le promesse di Dio, come afferma san Paolo, sono irrevocabili, perché, se ciò è vero da parte di Dio, non lo è dalla parte dell'uomo, il quale può decidere, come è avvenuto nel caso degli ebrei, di recidere unilateralmente il patto. La salvezza degli ebrei, dunque, dipende, come per chiunque, dalla fede in Cristo Figlio di Dio, ossia dalla loro incorporazione alla Chiesa. Tale dottrina, che trova solidissimo appoggio non solo nella Sacra Scrittura ma anche nel consenso unanime dei Padri e dei teologi, risulta completamente stravolta in "Nostra aetate". Già prima dell'inizio del Concilio - ricorda D'Amico - la Santa Sede aveva effettuato alcuni incontri segreti con importanti esponenti del mondo ebraico per domandare che cosa si aspettassero dall'assise ecumenica. Essi pretesero la loro completa riabilitazione, ossia, da un lato, la cancellazione dell'accusa di deicidio, e dall'altro il riconoscimento della perenne validità dell'antica alleanza.
Il Concilio li accontentò su tutti i punti. I decenni successivi sono stati un susseguirsi di visite a sinagoghe, incontri ecumenici e richieste di perdono, in un atteggiamento di sempre maggiore sudditanza della Chiesa cattolica rispetto all'ebraismo. Questa evoluzione nella dottrina cattolica, secondo D'Amico, non è affatto casuale. Egli cita uno scritto del rabbino livornese Elia Benamozegh, che molti anni prima, alla fine del XIX secolo, prospettava un "nuovo ordine mondiale", nel quale gli ebrei avrebbero avuto la piena
supremazia religiosa e politica; i non ebrei, invece, avrebbero praticato una religione "generica", che Benamozegh identificava con la religione cattolica, purgata però dagli elementi di maggior contrasto con l'ebraismo, vale a dire la divinità di Cristo, il mistero della SS. Trinità, la pretesa unicità salvifica. È evidente - conclude D'Amico - che il problema dei rapporti tra il cattolicesimo e l'ebraismo non può essere ridotto ad una delle tante deviazioni in materia di ecumenismo. C'è di mezzo un disegno assai più grande e più inquietante, dal quale non si può prescindere se si ha intenzione di affrontare correttamente la questione.
Al termine, don Pierpaolo Petrucci ha ringraziato i presenti e ha ricordato loro che la soluzione della crisi della Chiesa, oltre che attraverso la disamina della dottrina e la confutazione degli errori, passa anche e soprattutto attraverso la pratica delle virtù cristiane e la vita di santificazione. Solo in questo modo è possibile, come si esprime Pio XI nella costituzione apostolica "Umbratilem" (8 luglio 1924), far discendere dal cielo quelle grazie spirituali senza le quali qualunque attività di apostolato, qualunque battaglia in favore della verità, risulta sterile e infeconda.
Il convegno si è concluso, la domenica successiva, con la celebrazione della S. Messa solenne presso il Priorato di Nostra Signora di Loreto, a Spadarolo, e con un momento di fraterna convivialità.
Predica della Santa Messa in conclusione del convegno.